Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Il 1975 è un anno di svolta nella vita e nella carriera di uno dei massimi intellettuali – oltre che il più lucido e meno irregimentato – dell’Italia dell’epoca. Pier Paolo Pasolini è infatti alle prese con il montaggio di Salò o le 120 giornate di Sodoma, opera controversa fin dalle sue prime fasi di lavorazione, e con la stesura di uno strano romanzo inchiesta con il quale l’autore minaccia di denunciare il ruolo chiave giocato dallo Stato in molti degli attentati che stavano insanguinando il Paese.
Un periodo di furore artistico interrotto bruscamente la mattina del 2 novembre di quello stesso anno, quando il corpo martoriato di Pasolini viene ritrovato senza vita in uno squallido sterrato adiacente a una baraccopoli dell’Idroscalo di Ostia.
Dell’assassinio, rubricato in fretta e furia come omicidio a sfondo omosessuale, viene accusato Pino Pelosi, un giovane borgataro incontrato dal regista la sera prima nei dintorni della Stazione Termini.
Nei mesi successivi inizia però a montare l’inquietante sospetto che dietro l’omicidio di Pasolini possa esserci molto di più che del banale sesso mercenario finito in tragedia.
David Grieco – che del poeta e regista fu sia amico che collaboratore – non ha il minimo dubbio a riguardo: Pasolini stava diventando una voce troppo scomoda e andava, in qualche modo, messo a tacere.
La macchinazione parte quindi dalla certezza che tutto ciò che, per quarant’anni, ci è stato raccontato su quella tragica notte non sia altro che una menzogna di Stato con cui lasciar passare l’idea di un Pasolini vittima di uno di quegli stessi ragazzi di vita che le sue opere avevano contribuito a mettere in luce. Quasi un ironico contrappasso ordito per mascherare lo spettro di una ben precisa sinergia tra crimine organizzato, delinquenza comune e criminalità politico-finanziaria.
A questo si aggiunge poi l’ombra oscura di Eugenio Cefis – successore di Mattei alla guida dell’ENI e fondatore della loggia massonica P2 – ritenuto da Pasolini il vero burattinaio della politica italiana e il principale fautore dei legami tra Stato e poteri occulti.
Detto ciò, che cosa aggiunge Grieco di nuovo a una teoria – quella, appunto, della cospirazione – tra l’altro già presente in nuce nel bel Pasolini, un delitto italiano di Marco Tullio Giordana?
Il primo e forse più importante apporto inedito è il dubbio che Pasolini possa non aver conosciuto Pelosi la sera della sua morte, ma che i due avessero in realtà una storia che andava avanti già da mesi e che era qualcosa di più di una semplice frequentazione saltuaria. Allo stesso modo in cui nulla si era mai detto degli incontri tra lo stesso Pasolini e Giorgio Steimetz, autore del libro perduto Questo è Cefis che rappresentò la base teorica delle ricerche su Petrolio.
Peccato solo che alla veemenza con cui sostiene le proprie istanze, Grieco non faccia corrispondere un’adeguata solidità stilistica mostrando invece, per tutta la durata del film, una serie di pecche oggettivamente ingiustificabili.
Si va da alcune discutibilissime scelte di montaggio a una sceneggiatura che abbraccia in maniera un po’ troppo ondivaga gli ultimi tre mesi di vita di Pasolini senza concentrarsi su nessun aspetto in particolare.
Per non tacere poi di una regia assente che tradisce, in più di un passaggio, una forte sensazione di amatorialità, per molti versi anche comprensibile considerando come David Grieco sia da considerarsi più uno scrittore che non un regista.
Laddove l’inesperienza si fa particolarmente sentire è nella fase centrale de La macchinazione, quella in cui l’accumulo progressivo di elementi (fondamentale in un film dichiaratamente a tesi) si fa più farraginoso e, anziché avvincere, finisce col tediare.
La situazione migliora leggermente durante il lungo montaggio incrociato che conduce verso il tragico epilogo, ma c’è da dire che ciò che viene mostrato è dotato di una tale violenza evocativa da risultare disturbante in qualsiasi modo si scelga di filtrarlo.
Sebbene lontano anni luce sia dal delirio sconclusionato del Pasolini di Abel Ferrara, Grieco si limita a fare un compitino scolastico che non sposta di molto i limiti di un’indagine di cui non si è mai smesso di parlare.
Un plauso però l’autore lo merita senz’altro: per la scelta di un protagonista come Massimo Ranieri, qui perfetto per intensità e mimesi fisica col vero Pasolini.
Una performance eccezionale e generosa che cozza un po’ con la medietà generale che contraddistingue l’opera e ci ricorda quanto l’attore, a dispetto delle sue indubbie doti, sia da sempre e in maniera del tutto inspiegabile snobbato dal cinema.
Voto 5
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