Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Melinda (Elizabeth Banks) lavora in una concessionaria di automobili.
Un giorno un uomo (John Cusack) che dice di chiamarsi Brian Wilson entra nello showroom, apparentemente per comprare un’auto.
In realtà ha solo voglia di parlare con qualcuno che, magari senza riconoscerlo, non sia intimidito da ciò che rappresenta.
Perché lui è il leggendario leader dei Beach Boys, l’autore di canzoni immortali che hanno hanno rivoluzionato la musica pop nella metà degli anni 60.
E sta malissimo. Ormai da anni, infatti, Wilson è afflitto da un profondo disturbo psichico reso ancora più acuto dalle discutibili terapie del Dottor Landy (Paul Giamatti), strana figura di psicologo/manager che ha progressivamente ridotto la sua sfera sociale fino a costruirgli attorno un muro invalicabile per chiunque.
La parabola psichica di Brian Wilson è cosa nota a qualsiasi estimatore del suo incommensurabile talento artistico. Una fragilità emotiva che, una volta riversata su pentagramma, ha però prodotto alcuni degli esempi più alti di quella che una volta veniva chiamata musica leggera.
Ci si chiede dunque quanto un film incentrato sulla vita dell’indimenticato autore di God Only Knows possa essere oggetto d’interesse per un neofita o per chiunque non sia particolarmente avvezzo alle cose di musica.
Se, a rigor di logica, verrebbe da rispondere “molto poco”, il profluvio di biopic di musicisti che hanno invaso le sale negli ultimi anni (e in uscita ce ne sono altri due su Chet Baker e Miles Davis) dice in realtà l’esatto contrario.
Laddove però sulla maggior parte delle opere di questo genere grava di solito un’eccessiva banalizzazione dei processi artistici, trascurati a favore invece degli aspetti più sentimentali e/o trasgressivi delle vite dei soggetti trattati (vedi dipendenze o tracolli economici), il film di Bill Pohlad ha se non altro il pregio di non cadere in nessuno di questi errori.
Una buona metà di Love and Mercy infatti si concentra sugli anni giovanili di Wilson, identificando come punto di non ritorno – sia artistico che mentale – del musicista il lunghissimo periodo passato in studio a registrare Pet Sounds, capolavoro insuperato dei Beach Boys ma anche motivo di scissione tra un Brian ormai proiettato verso i lidi lisergici della sperimentazione e i restanti membri del gruppo ancora legati a un’idea di surf music fatta di facili melodie dal successo immediato.
E’ la prima volta che un film descrive così nel dettaglio il processo creativo e le dinamiche che si celano dietro alla registrazione di un disco, elementi fondamentali per comprendere appieno l’importanza di un artista che ha stravolto la concezione stessa dello studio di registrazione fino ad equipararlo a un qualsiasi altro strumento musicale.
A questo si aggiungano poi le interpretazioni maiuscole di due attori straordinari come Paul Dano e John Cusack, chiamati a interpretare Wilson, il primo nella fase giovanile e il secondo in quella più matura in cui un accenno di love story – ahinoi salvifica – fa effettivamente capolino, sebbene declinata in maniera assai meno strappalacrime di quanto si sarebbe potuto fare.
A legare le due metà del film la figura del padre, sia fisico che putativo, centrale nella (de)formazione di un genio quasi inconsapevole del proprio talento, mosso dall’ossessione di compiacere l’autorità di turno prima ancora che dal desiderio di firmare qualcosa di eterno.
In definitiva un film assolutamente medio – sia per stile visivo che per scrittura – con il merito di andare un po’ oltre il vetusto stereotipo del Sex and Drugs and Rock and Roll.
Voto 6,5
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
La parabola psichica e musicale di Brian Wilson, tra genio e fragilità, interpretata da John Cusack e Paul Dano.
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