Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Sul capolavoro gotico di Mary Shelley sono in molti a essere caduti.
Se l’ultimo in ordine di tempo è stato il recente e inutile Frankenstein di Bernard Rose, c’è chi ancora ricorda con orrore (assolutamente non legato allo spavento causato dal film in sé) l’adattamento che ne fece Kenneth Branagh nel ‘94, forse l’inizio del baratro per Robert De Niro.
Ciò detto, si consideri che Victor – La storia segreta del Dottor Frankenstein è un film talmente brutto e pasticciato che, a fine visione, si ha quasi voglia di rivalutare quel Branagh. Perché non c’è assolutamente nulla che funzioni in questo tentativo fallito di aggiornare il mito prometeico del Barone Frankenstein in chiave bromance.
Più che sull’uomo che volle giocare a fare Dio o sul mostro che finì per creare, infatti, ci si concentra qui sull’amicizia, non priva di vaghi sentori omoerotici, che lega il protagonista (James McAvoy) – un agiato studente di medicina traumatizzato dalla scomparsa, molti anni prima, del fratello maggiore – al suo assistente Igor.
Quest’ultimo poi, storpio come da tradizione iconografica, nei primi dieci minuti viene trasformato in un dandy che, se non fosse interpretato da Daniel Radcliffe, avrebbe potuto anche essere considerato affascinante. Il tutto grazie all’asportazione della gobba (che in realtà si scopre essere un’enorme cisti) e a un busto ortopedico che ne corregge i problemi posturali che lo affliggevano da una vita. E magari si trattasse solo di un unico svarione di sceneggiatura, opera tra l’altro del lanciatissimo figlio d’arte Max Landis.
Tra personaggi che entrano ed escono di scena nel giro di pochi minuti, un ispettore di polizia che perde una mano e ritroviamo poco dopo con una benda sull’occhio e un molto poco realistico flirt tra lo stesso Radcliffe e una bellissima trapezista alta il doppio di lui, sembra quasi di assistere a una parodia à la Mel Brooks.
A questo si aggiunga poi un James McAvoy che fa gli occhi da matto e recita gigioneggiando neanche fosse un vecchio trombone sul palco dell’Old Vic e il quadro, più o meno, è completo.
E a nulla servono i pistolotti retorici sui supposti limiti che la scienza dovrebbe imporsi né tantomeno la regia di Paul McGuigan che ricordavamo autore di notevoli intuizioni di genere in Gangster N.1 e Slevin – Patto criminale e che qui si limita invece a fornire una cornice lussuosamente dark con cui tentare di gettare fumo negli occhi a uno spettatore incredulo dinanzi a tanta pochezza. Il disastro, infatti, non si limita al solo impianto narrativo ma coinvolge anche una componente estetica che, al gotico della matrice letteraria, preferisce un più stiloso steampunk, in un processo di rilettura che idealmente vorrebbe ripetere quanto fatto da Guy Ritchie con i suoi due Sherlock Holmes. Solo che qui il giochino proprio non riesce.
Del resto la voce off di Igor/Radcliffe lo ricorda più di una volta: la storia di Frankenstein è cosa nota a tutti.
E allora perché non optare per una riscrittura integrale di un mito che, in qualche modo, conserva ancora un suo potere di fascinazione, piuttosto che limitarsi a questa sterile modernizzazione di facciata?
Era forse chiedere troppo?
Voto 3
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