Le confessioni

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Le_Confessioni

A tre anni da Viva la libertà, Roberto Andò torna a riflettere sulle possibili rappresentazioni della politica nel cinema con Le confessioni.
E se a tracciare un ideale fil rouge tra le due opere provvede il Toni Servillo protagonista di entrambe, qui il processo analitico si fa più sottile, spostandosi dall’altro da sé (il tema del doppio trattato nel film precedente) all’altrove da qui.
Un altrove racchiuso nei corridoi di un hotel di lusso in cui gli otto ministri dell’economia delle maggiori potenze mondiali soggiornano in attesa di un summit durante il quale verranno decise le sorti del mondo occidentale.
Completano il quadro il Direttore del Fondo monetario internazionale Daniel Roché (Daniel Auteuil) e un terzetto di ospiti estranei al mondo della politica composto da una scrittrice di best seller per bambini, una matura rockstar e Roberto Salus, un taciturno quanto misterioso monaco.
La morte improvvisa di Roché getta un’ombra sinistra sull’intero consesso e lascia i partecipanti privi di una guida – morale prima ancora che tecnica – e di fronte al dilemma di proseguire o meno il varo della manovra in esame. Ago della bilancia sarà proprio il monaco, l’ultimo tra gli ospiti ad aver visto Roché vivo, oltre che il depositario della sua ultima confessione.



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È uno scenario assai cupo quello in cui Andò cala lo spettatore fin dalle prime immagini della pellicola, pieno com’è di possibili letture metafisiche sulla cui pertinenza l’autore sembra lasciare completa libertà allo sguardo altrui. Ci si chiede, in sostanza, se l’hotel sia un luogo reale oppure una sorta di metaforico purgatorio, se Roché sia stato vittima di un omicidio mascherato da suicidio o se, in preda ai sensi di colpa per una manovra che lascerà buona parte del mondo in ginocchio, abbia semplicemente deciso di farla finita.
In base a come si scelga di interpretarne la prima mezzora, Le confessioni diventa automaticamente un cupo giallo a chiave in cui il monaco potrebbe avere il ruolo di ipotetico deus ex machina o una metafora di come le leggi della moderna economia globale non possano, in ogni caso, mai prescindere da ciò che Nietzsche definiva “Umano, troppo umano”.
E per quanto molti elementi spingano di più verso la seconda ipotesi – non ultimi lo stile visivo scelto dall’autore, tendente all’onirico e memore di certe suggestioni sorrentiniane (il resort svizzero che fa da location rimanda sia all’albergo de Le conseguenze dell’amore che alla Spa di Youth – La giovinezza) e la materia criptica di cui la maggior parte dei dialoghi risultano composti – c’è da dire però che, indipendentemente dalla strada interpretativa che si scelga di percorrere, il film in buona parte fallisce.

Fallisce innanzitutto come ipotetico giallo, in quanto non sfrutta le infinite possibilità drammaturgiche del canovaccio “gruppo di persone in un interno”, caricando quasi tutto il peso del plot sulle spalle del monaco di Servillo per relegare invece gli otto ministri al ruolo di semplici figurine di contorno.
Il discorso non cambia anche qualora si propenda per una lettura allegorica, resa oltremodo ostica dal ritmo lento – a tratti quasi pachidermico a dispetto dei suoi cento minuti scarsi di durata – di un film che, non appena scopre le proprie carte, inizia inesorabilmente ad annoiare.
In definitiva Andò si rivela inadatto a ibridare le proprie velleità autoriali con le suggestioni di genere, e anche le interessanti atmosfere pre apocalittiche da lui costruite nell’incipit finiscono per crollare sotto il peso di una storia perennemente indecisa su quale direzione imboccare.
Non è difficile che, durante la visione, torni alla mente la ben più riuscita rappresentazione del disfacimento morale del potere tratteggiata da Sollima in Suburra, per non parlare poi di Todo Modo, a cui Andò sembra ispirarsi esplicitamente pur senza seguirne l’esempio in termini di distorsione grottesca del reale.
Resta la delusione per quello che, almeno sulla carta, sarebbe potuto essere ben altro film e l’ennesima maiuscola interpretazione di un Toni Servillo che, sebbene ritorni a tratti sui medesimi passi del Titta Di Girolamo de Le conseguenze dell’amore, rappresenta uno dei pochi valori aggiunti di un film per il resto abbastanza prescindibile.

Voto 5

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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