Zona d’ombra – Una scomoda verità

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La determinazione di un minuscolo Davide che si scaglia contro un apparentemente inattaccabile Golia è un pattern narrativo alla base di una discreta fetta di cinema classico americano. E’ parte di quel Sogno tutto a stelle e strisce che vede nella realizzazione del singolo uno dei suoi punti di forza e che Zona d’ombra – Una scomoda verità, sposa in maniera fin troppo evidente già nella sua scena d’apertura.
La storia è quella di Bennet Omalu (Will Smith), anatomopatologo nigeriano emigrato a Pittsburgh che, nel 2002, durante l’autopsia di un ex campione di football americano, riscontra quella che potrebbe essere una relazione diretta tra i traumi dovuti ai numerosi e ripetuti scontri fisici subiti dall’uomo in carriera e la demenza che ne ha afflitto buona parte della vita adulta. Quando i casi iniziano a moltiplicarsi, il giovane medico sente il dovere morale di rendere pubblica questa scoperta. Ignora però che, così facendo, si mette contro l’intera NFL (National Football League), implicitamente accusata di essere a conoscenza dei rischi fisici ai quali sottopone ogni anno tutti i suoi giocatori, e milioni di americani che, amando profondamente lo sport nazionale, non hanno piacere che questo venga messo in alcun modo in discussione. Per Omalu ha quindi inizio un calvario durante il quale più cerca di far sentire la sua voce e più viene messo a tacere da poteri troppo più forti di lui.



 

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Che poi uno legge la trama e pensa di trovarsi di fronte a una specie di Insider del football americano. Purtroppo non è così e non solo perché Michael Mann è Michael Mann. Il problema fondamentale  di questo Zona d’ombra – Una scomoda verità è a monte, in una sceneggiatura (opera dello stesso regista, Peter Landesman) fortemente didascalica, che lavora più sulla beatificazione del suo protagonista che non sulla costruzione del medical thriller che il film vorrebbe e potrebbe essere.
Omalu, infatti, non viene semplicemente rappresentato come martire potenziale di uno scontro impari, bensì come un immigrato ultracattolico che infila Dio in quasi ogni discorso e vive con infinito (diciamo pure troppo) candore gli ideali di libertà promessi e di rado mantenuti da quella Land of Hope and Dreams cantata, non senza un filo di ironia, da Springsteen. Lo stesso Will Smith – dopo Muccino del tutto incapace di azzeccare un ruolo – contribuisce ad appiattire il personaggio con una recitazione monocorde, a tratti quasi infantile, finendo col renderlo qualcosa di molto più simile a un Forrest Gump degli obitori che non a un eroe.

E per quanto si possa ribattere che, alla fin fine, si tratta pur sempre di un film tratto da fatti realmente accaduti (oggetto prima di un articolo su GQ e poi di un libro) e che a quelli si debba in qualche modo aderire, la verità è che spesso, nella costruzione di un buon film, il processo di riscrittura per immagini della storia risulta assai più importante della storia stessa.
Sarebbe bastato poco, anche un solo dubbio etico o tentennamento.
E invece no, il protagonista di Zona d’ombra – Una scomoda verità procede retto dall’inizio alla fine senza indugio, senza farsi poi neanche troppo male e quest’ultima cosa è forse ancora più imperdonabile se si raccontano le gesta di un uomo pronto a tutto pur di avere giustizia. E dire che il Landesman sceneggiatore si era già scontrato con lo stesso identico problema, lo scorso anno, con il dimenticabile La regola del gioco, in cui il protagonista era un reporter che, per amore della verità, si metteva contro la CIA.
Spiace soprattutto per Alec Baldwin, qui usato poco e male, mentre sarebbe il caso che il buon Will Smith – che a breve immaginiamo avrà modo di riguadagnare punti con l’atteso Suicide Squad – forse iniziasse a considerare sul serio l’ipotesi di cambiare agente.

Voto 4

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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