Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Il coro di urla e fischi che ha accompagnato la proiezione de La foresta dei sogni all’ultimo Festival di Cannes non deve aver certo contribuito ad affrettarne le pratiche di distribuzione in Italia. Forse chissà, si sperava che l’eco di una tale unanimità di giudizi negativi nel frattempo si smorzasse ma, sta di fatto, che dell’ultimo film di Gus Van Sant – oltre che primo ruolo post-consacrazione alla notte degli Oscar per Matthew McConaughey – sembravano ormai essersi perse le tracce.
E invece, alla fine, eccolo qui. E, per la cronaca, non è affatto l’orrore che ci si aspettava.
La storia, davvero minimale, è quella di Arthur Brennan (Matthew McConaughey) che, sconvolto dal dolore, compra un biglietto aereo di sola andata per il Giappone deciso a perdersi nella fitta e misteriosa foresta di Aokigahara, situata alle pendici del Monte Fuji e nota anche come “la foresta dei suicidi”. Lì incontra Takumi Nakamura (Ken Watanabe), un giapponese che, proprio come lui, sembra aver perso la strada.
Incapace di abbandonare l’uomo al suo destino, Arthur mette da parte i suoi istinti suicidi e usa tutte le energie che gli restano per salvarlo.
I due intraprenderanno un cammino di riflessione e di sopravvivenza che farà riscoprire a entrambi la voglia di vivere e, ad Arthur, l’amore per la moglie Joan (Naomi Watts).
La filmografia di Gus Van Sant è sostanzialmente divisa in due, tra opere dalle più spiccate finalità narrative – che alcuni, non senza malizia, riconducono a scopi squisitamente alimentari – come Scoprendo Forrester, Milk e il sottovalutato Promised Land, e progetti invece più personali che, privi dell’ansia di chi deve far cassa, dilatano i tempi e acquistano senso anche attraverso l’allontanamento dalla linearità del racconto.
Rientrano in quest’ultimo schema film come Paranoid Park, Last Days e Gerry, ossia quelli che hanno contribuito in misura maggiore a definire l’estetica dell’autore e a garantirgli una base equamente divisa di fan e detrattori.
La foresta dei sogni, pur ricordando Gerry nel suo seguire la progressiva perdita di due persone in uno spazio fisico che finisce per diventare ben presto anche luogo dell’anima, è opera tutt’altro che sperimentale, che vive perfettamente in bilico tra i due diversi modi di fare cinema di Van Sant.
Proprio come due sono i film che si intrecciano durante la visione, in un montaggio che alterna le immagini di una coppia emotivamente alla deriva, persa nelle pastoie di un matrimonio che semplicemente non funziona più, a quelle, suggestive e spettrali, di due estranei che lottano per uscire vivi da un fitto intrico di alberi costellato dei corpi di chi vi si è perso prima di loro.
Amore e morte quindi – o morte dell’amore – proprio come nel bellissimo L’amore che resta di cui La foresta dei sogni non raggiunge mai, pur sforzandosi, l’intensità.
Perché se questo film ha un difetto, è proprio nell’infarcire ogni immagine di una carica eccessiva di sentimento, senza badare troppo alla misura.
In tal senso la regia di Van Sant, lavorando in maniera perfettamente armonica con lo script di Chris Sparling (autore, qualche anno fa, del piccolo cult Buried – Sepolto), finisce per perdersi e perdere la direzione insieme ai suoi personaggi, dinanzi alla grandezza di un paesaggio che, allo stesso tempo, incanta e inquieta. Ma è una perdita quasi voluta, inseguita con la tenacia di chi sa che, da certe imprese, non se ne può uscire illesi. L’autore di Belli e dannati mostra quindi il fianco alle (numerosissime) critiche con inusitato coraggio, fino a un epilogo che, quello sì, esagera davvero con un mix di metafisica e melassa che è oggettivamente difficile da digerire.
Ma è comunque difficile capire il dileggio anche violento della critica di fronte a un film che, sebbene imperfetto, si rivela appassionato in ogni sua parte e privo della furbizia che lo stesso autore conosce benissimo. In sintesi La foresta dei sogni è un bel film sbagliato. Un’opera imperfetta che, anche a montaggio ultimato, continua a cercare il suo equilibrio.
E per chiunque ne abbia lamentato l’eccessiva lentezza, il consiglio è di andarsi a rivedere gli incensati Elephant e Last Days.
Poi ne riparliamo.
Voto 6,5
Per offrirti il miglior servizio possibile il sito utilizza i cookie. Proseguendo la navigazione, ci autorizzi a memorizzare ed accedere ai cookies di questo sito web. Leggi l'informativa
The cookie settings on this website are set to "allow cookies" to give you the best browsing experience possible. If you continue to use this website without changing your cookie settings or you click "Accept" below then you are consenting to this.
Leave a reply