Cannes: i 10 capolavori italiani rimasti a mani vuote

Di Andrea Bosco
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Una giornata particolare – Ettore Scola

Si apre oggi la 69° edizione del Festival di Cannes: tanti film, tantissime star e, come ogni anno, sicuramente anche qualche polemica. Ed è a questo proposito che abbiamo voluto ripensare a dieci grandi smacchi fatti al nostro cinema dal Festival, non premiando pellicole presentate In Concorso, poi diventate colonne portanti della cinematografia nostrana.

1949: Riso amaro, Giuseppe De Santis

Plausibilmente adombrato, nel primo palmarès onnicomprensivo della storia della manifestazione, dal trionfo de Il terzo uomo di Reed, il classico che rivelò la Mangano e cortocircuitò la produzione nostrana dell’epoca rimane a mani vuote in un concorso sovrabbondante e perlopiù oggi piombato nell’oblio.



1952: Umberto D., Vittorio de Sica

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Reduce dal Grand Prix conquistato l’anno prima da Miracolo a Milano, De Sica tenta il clamoroso uno-due con un’ulteriore pietra miliare, ma la giuria gli favorisce, insieme a due dimenticabili prodotti locali, le tinte più rassicuranti del conterraneo Due soldi di speranza: è il sorpasso del Neorealismo Rosa.

1966: L’armata Brancaleone, Mario Monicelli

C’è poco da sindacare in un’edizione in grado di assegnare a Pietro Germi e al suo Signore & signori il premio maggiore: peccato che a farne le spese sia il folle, irripetibile esperimento di Monicelli, in una delle annate, tra il Falstaff di Welles e l’irresistibile Alfie, più agguerrite di sempre.

1969: Dillinger è morto, Marco Ferreri

Niente da fare per la delegazione italiana al Festival, dove a svettare sul resto sono la controcultura sessantottina di Se… e l’antagonismo di Z – L’orgia del potere e di Adalen ’31: il film-manifesto di Marco Ferreri, poco prima della pioggia di fischi che accoglierà La grande bouffe, partecipa senza lasciare traccia.

1975: Professione: reporter, Michelangelo Antonioni

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Con due Premi Speciali e una Palma d’Oro all’attivo, Antonioni resta uno dei beniamini di Cannes, ma il suo ultimo miracolo prima della lenta decadenza passa scandalosamente sotto silenzio; sarà il mediocre Identificazione di una donna, sette anni più tardi, a riequilibrare, immeritatamente, i torti.

1977: Una giornata particolare, Ettore Scola

Ottenuto il Prix de la mise en scène per Brutti, sporchi e cattivi, Scola gioca al rialzo dodici mesi dopo, ma a ergersi su una selezione incapace di vedersi assegnato tanto il riconoscimento al miglior regista quanto il Gran Premio Speciale è, fra la sorpresa e la contestazione, Padre padrone dei fratelli Taviani.

2001: Il mestiere delle armi, Ermanno Olmi

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Devono passare oltre due decenni da L’albero degli zoccoli prima che la Palma d’oro, con La stanza del figlio, attraversi di nuovo le Alpi: senza nulla togliere a Moretti, risarcito dopo la vittoria mancata di Caro diario, il vero campione tricolore della stagione festivaliera portava ancora la firma di Ermanno Olmi.

2002: L’ora di religione, Marco Bellocchio

Se fra il cineasta emiliano e il Lido esiste da sempre un rapporto infuocato e contrastato, quello con la Croisette è segnato da una colpevole indifferenza: risolto il lungo periodo della crisi, Bellocchio sigla il capolavoro della maturità, ma patisce la concorrenza spietata di Polanski, Kaurismaki, dei Dardenne e di P.T. Anderson.

2009: Vincere, Marco Bellocchio

Di nuovo in gara con un altro opus magnum, il regista de I pugni in tasca incassa una sconfitta ancor più pesante, travolto da quell’aura di violenza belluina che, da Haneke a Mendoza, passando per Audiard, Park e Von Trier, accomuna e riunisce tutti i vincitori dell’edizione, fra le più combattute dello scorso decennio.

2015: Mia madre, Nanni Moretti

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Dato inizialmente tra i favoriti e accolto con il solito entusiasmo dai padroni di casa, il capitolo più disarmante e intimo della filmografia morettiana è la vittima più illustre della débacle italiana dell’anno passato, azzoppata da verdetti al limite dello sciovinismo ma, come testimonia la classifica dei Cahiers, capace di imporsi sulla lunga distanza.

 

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