Julieta

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Il rapporto che Pedro Almodóvar ha saputo stabilire con il melodramma nel corso degli anni è ormai un aspetto consolidato del suo cinema. Dopo l’allegra (ma in realtà piuttosto infelice) parentesi de Gli amanti passeggeri, l’autore spagnolo ci si è ributtato a capofitto con Julieta, sua ventesima pellicola, mélo che vira al thriller costruito e raccontato con gli abituali flashback che si intersecano al presente e con quelle atmosfere un po’ hitchcockiane (alcune sequenze girate in treno o la governante interpretata da Rossy De Palma che tanto ricorda la signora Danvers di Rebecca la prima moglie) a lui congeniali che caricano l’intrigo di suspense. Tratto da un romanzo di Alice Munro riadattato alla realtà spagnola, Julieta è uno dei lavori più dolenti e tormentati dell’autore iberico, ma al netto di una impeccabile cura stilistica e formale, il regista di Tutto su mia madre e Parla con lei questa volta delude nel presentare al pubblico un film che sembra aver girato con la mano sinistra.



Julieta (Emma Suàrez), in procinto di partire per il Portogallo col suo compagno Lorenzo (Dario Grandinetti), viene a sapere che sua figlia Antìa, di cui non sa più nulla da dodici anni, vive in Svizzera. Decisa a restare a Madrid, si trasferisce nel palazzo dove aveva vissuto con lei e rievoca, in un diario, la sua storia: da quando giovane (Adriana Ugarte) incontrò su un treno l’affascinante pescatore Xoan (Daniel Grao), con cui andò a vivere in Galizia e con cui ebbe Antìa, passando per il tragico evento che la portò a Madrid fino a una separazione dolorosa diventata, nel corso degli anni, motivo di ossessione e follia per la donna.

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Da attento e straordinario ritrattista di figure di donna qual è, Almodóvar aggiunge al suo lungo elenco di caratteri femminili anche quello di Julieta, femmina e madre coraggio, la cui esistenza si trascina sotto il segno del rimorso. Nel distinguere la colpa dal suo senso (nel primo caso si tratta di un fatto oggettivo, mentre nel secondo di qualcosa di assolutamente soggettivo, della terribile sensazione di aver fatto qualcosa di sbagliato che spesso comporta un danno, reale o presunto) il regista spagnolo dà forma a un personaggio che è effettivamente il film, caratterizzato da una gravitas vivendi tangibile e dolente che è ben reso sui volti delle attrici che interpretano la donna nelle due età della sua vita, Adriana Ugarte ed Emma Suàrez. Quello che Almodóvar fa patire alla sua Julieta non manca di sadismo: il dolore della donna è talmente grande da non poter essere esternato in alcun modo. Nessun grido, nessun palesamento, solo una sorta di resistenza passiva e disperata a un accadimento non compreso fino in fondo.

Gli incontri casuali che incidono su cose e persone, le devastanti relazioni familiari, la fuga, la stretta correlazione fra arte e vita, temi ricorrenti nel cinema di Almodóvar, si incontrano con le scenografie pop, con alcune azzeccatissime scelte registiche (l’ellissi temporale che si compie sotto l’asciugamano) e con echi viscontiani (la casa di Xoan e la sua vita scandita dai mutevoli ritmi mare) che se da un lato  contengono tanta poesia, dall’altro rimangono come slegati all’interno di uno script eccessivamente forzato in alcuni punti, che sembra voler andare sul sicuro riproponendo situazioni e contesti già proposti e apprezzati. E una morale tutt’altro che consolatoria che punta il dito su un destino bizzoso di fronte al quale non si può far altro che rassegnarsi.

Voto 6

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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