Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Di certo è troppo presto, vista la limitata produzione locale e la scarsa fortuna di mercato oltre i confini nazionali, per parlare di una nuova corrente artistica caucasica lanciata a bomba alla conquista del mondo; è altrettanto vero, però, che dopo aver funto da incubatrice per alcuni dei massimi cineasti est-europei della loro generazione, ora, come nel caso di Abuladze, Parajanov e Khutsiev, coattamente risucchiati nell’orbita dell’URSS, ora, come per Ioseliani, riparandosi sotto l’egida dell’Occidente, quella striscia di terra costretta fra il Mar Nero e il Mar Caspio è stata lo sfondo ricorrente di alcune delle più sorprendenti rivelazioni del Vecchio Continente della prima metà di questo decennio, accolte con entusiasmo e lautamente riconosciute da un circuito di festival periferici che parte da Karlovy Vary, passa per Sarajevo e si ferma ad Heidelberg, ma rimaste miseramente a disposizione e beneficio di pochi addetti ai lavori, dall’azero Nabat, tesoro nascosto di Venezia71, ai georgiani In Bloom e Corn Island.
A circa un anno dall’arrivo di quest’ultimo nell’indifferenza generale delle nostre sale – fattore che non ci impedì lo stesso di includerlo fra le migliori uscite della scorsa stagione -, la distribuzione italiana pesca nuovamente nella storia recente del cinema di Tbilisi per recuperarne l’opera di più ampia risonanza internazionale, capace di ritagliarsi inaspettatamente un posto, benché ufficialmente in rappresentanza per l’Estonia, nella cinquina dei candidati all’Oscar per il miglior film straniero di due edizioni fa nonostante un’agguerritissima concorrenza.
Tangerines – Mandarini, ancorché privo della ricercatezza formale e del rigore autoriale delle pellicole di cui sopra, è in ogni caso un significativo salto in avanti verso la definizione e l’affermazione di una cinematografia che ha finalmente fatto i conti con la dissoluzione del blocco sovietico e che si prepara oggi a conquistare la propria autonomia tematica e stilistica.
Un processo ancora lento, graduale e inevitabilmente condizionato dal passato prossimo della regione, visto che l’ultima fatica di Zaza Urushadze è, come tutte le altre citate in precedenza, intrisa di quella realtà militarizzata e di quel clima fratricida che hanno investito il territorio dall’anno della sua proclamazione di indipendenza dal governo di Mosca. Nel bailamme etnico che vede riuniti sotto lo stesso tetto un mercenario ceceno, un soldato dell’esercito regolare e, a fare da arbitri, i soli membri rimasti della sparuta comunità estone, rimpatriata in massa allo scoppio della Guerra georgiano-abkhaza, c’è tempo per uno studio di caratteri teso ed equilibrato, attento a mantenere le distanze e ad esaminare le ragioni degli uni e degli altri, col risultato, però, di restare in superficie sulle radici e sulle rivendicazioni dello scontro, rifugiandosi in un’ecumenica morale pacifista tanto sincera quanto rassicurante, tanto abile a schivare la retorica quanto, sotto sotto, così focalizzato sul suo messaggio umanitario da rendere l’evoluzione dei personaggi – vuoi anche per l’esigua durata – in maniera schematica e sbrigativa.
Se pertanto lo sguardo sul conflitto e sulle due parti in causa finisce per farsi riduttivo e per dedicare subito spazio alle tappe più prevedibili della tradizionale parabola solidale (la scoperta di interessi comuni, il bivacco conviviale intorno al fuoco, il finale catartico), lasciando affievolire la tensione e ammortizzando ogni possibile sensazione di pericolo, il racconto regala spunti di maggiore riflessione quando si focalizza sullo spaesamento di chi vi assiste, ovvero il falegname Ivo e l’agricoltore Margus, prigionieri della propria enclave aggrappati, il primo per senso di responsabilità, il secondo con un occhio al futuro, a una landa martoriata eppure florida (la piantagione dei mandarini del titolo, la cui vendita permetterebbe ai due di abbandonare il Paese) da non poter considerare né propria né altrui, ma solo una zona franca a uso e consumo della milizia di passaggio di turno.
È quindi soprattutto nelle fasi preliminari e preparatorie del dramma che il film funziona di più, nella descrizione di un avamposto della violenza a metà fra il bucolico e il bellico, fra la paura e la natura, un limbo da cui la guerra (le minacciose incursioni dei russi) e la pace (il ritratto della nipote di Ivo, unico, irraggiungibile femminino ad aleggiare sullo scenario) sono equidistanti ed evocate appena. Il passo si fa decisamente più incerto dal momento che Urushadze decide di imboccare la strada del kammerspiel e di circoscrivere il tutto in interni, svelando i difetti di uno script fragile e abbozzato, affidato troppo alla didascalia e troppo poco alla suggestione, eccessivamente attaccato alle proprie buone intenzioni per rischiare di andare in profondità e di dire qualcosa di originale.
Certo, l’operazione si tiene alla larga dall’enfasi e dalla melassa e, in mezzo a qualche evitabile ingenuità (il dialogo iettatorio del pre-finale, la delusione di fronte all’automezzo abbandonato che non esplode come negli action hollywoodiani) di tanto in tanto fa capolino l’intuizione geniale, come la visita a sorpresa del commando ceceno o l’epilogo in bottega, dove, con crudele ironia, la storia si conclude così com’era iniziata, ma la decisione di semplificare l’insieme e di offrire al pubblico uno spettacolo più accomodante è comunque un compromesso che da un lato ha garantito una certa accessibilità e una più immediata fruibilità – e in questo sono sintomatiche le scelte dell’Academy -, ma che dall’altro ha un po’ piegato alla convenzione un modello di cinema che si era distinto come una delle promesse più brillanti nel panorama emergente europeo.
Voto 6.5
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