Segreti di famiglia

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La visione di Segreti di famiglia, primo film in lingua inglese del norvegese Joaquim Trier, spinge a riflettere su come nessun medium al pari del cinema sia adatto a rappresentare la morte o, meglio ancora, l’elaborazione del lutto da parte di quelli che restano.
Anzi, spingendosi oltre, si potrebbe dire che è il cinema stesso a nascere come un tentativo di vincere la morte attraverso il suo processo di riproducibilità potenzialmente infinita delle immagini.
Specificare come tale forma di narrazione, comprensiva di tutte le possibili declinazioni di senso di colpa, sia alla base di buona parte di tutto il cinema americano è addirittura pleonastico.
E’ interessante semmai che un autore scandinavo si serva dei meccanismi tipici di certo racconto familiare americano (siamo, per intenderci, dalle parti di Gente comune di Redford) per costruire un’opera che, a dispetto dei volti e dell’idioma scelto, appare indiscutibilmente “nordica” sia per struttura che per gelo.



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La scommessa è quella di dare forma ai vuoti e, attraverso i numerosi silenzi di cui tutto il film è abitato, far sì che lo spettatore percepisca il peso dell’assenza.
Ecco allora che Trier abbandona fin da subito l’idea di colpire la pancia del pubblico per concentrarsi invece unicamente sulla testa, attraverso un racconto che, a una scansione diacronica degli eventi, preferisce di gran lunga l’ellissi e il continuo spostarsi tra un prima e un dopo in cui il “prima” non è per forza di cose sinonimo di gioia.  La vigilia di una retrospettiva fotografica in onore della reporter di guerra Isabelle Reed (Isabelle Huppert), scomparsa tre anni prima in un incidente d’auto, diventa quindi l’occasione, per il marito (Gabriel Byrne) e i due figli, di cui uno adolescente e l’altro (Jesse Eisenberg) da poco padre, di fare i conti con un dolore che non hanno mai avuto modo di metabolizzare e, soprattutto, di comunicarsi l’un l’altro. A rendere il tutto più difficile un articolo di giornale che svela come, dietro la morte della donna, si celi l’ombra del suicidio.

La storia è tutta qui, in una casa troppo grande che sembra disabitata anche in presenza dei tre protagonisti e in cui i piani del passato e del presente si fondono, senza soluzione di continuità, con quello del sogno.
Come dicevamo, l’emotività manifesta è qui ridotta al minimo sindacale (basti pensare che nessuno piange mai) e tutto il dolore è relegato a margine, negli sguardi colmi di delicata apprensione del padre verso i suoi figli o nella rabbia repressa a fatica dal più piccolo dei due. C’è un estremo pudore nel modo che ha Trier di mostrare i suoi personaggi che non lambisce mai la cosiddetta “pornografia del dolore” ma che, allo stesso tempo, finisce immancabilmente per annoiare man mano che il film si avvicina alla fine.
Se da un lato, infatti, la scelta di prediligere i toni freddi per suggerire l’idea di un lutto conservato, perfettamente intatto, sotto il ghiaccio del tempo conferisce a Segreti di famiglia una dimensione autoriale immediatamente riconoscibile, la totale mancanza di qualcosa che assomigli a un colpo di scena (nemmeno in occasione della scoperta del suicidio della donna, di fatto l’unico twist del racconto) ne rende assai poco agevole la fruizione e, cosa ancor più grave per un film del genere, il processo di empatia verso uno o più personaggi.
Peccato le dinamiche raccontate in Segreti di famiglia (ma quanto è più bello il titolo originale Louder Than Bombs) si avvicinano, a tratti,  pericolosamente alla realtà.
Una realtà fatta anche di tempi morti che, però, al cinema andrebbero evitati.

Voto 6

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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