Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
A più di due anni dalla sua presentazione al Festival di Berlino dove ha vinto l’Orso d’oro come migliore opera prima, Güeros, il bell’esordio alla regia del trentacinquenne messicano Alonso Ruizpalacios, fa la sua timida comparsa anche dalle nostre parti. E, a dispetto del ritardo distributivo, è una vera boccata d’aria fresca.
Prima di tutto per come un giovane autore di estrazione teatrale sia riuscito a rielaborare il meglio degli ultimi cinquant’anni di cinema indipendente senza che il risultato appaia, in alcun modo, come un facile esercizio di stile.
Accade dunque che, in Güeros, la libertà di linguaggio della prima Nouvelle Vague vada a braccetto sia con il Jarmusch di Stranger Than Paradise che con le istanze sociali del Kassovitz de L’odio. Tra le righe, poi, un’idea di svacco postadolescenziale che indirettamente sembra guardare al Clerks di Kevin Smith.
Il personaggio di Epigmenio Cruz, misconosciuto cantante che forse avrebbe potuto salvare la scena rock messicana – c’è addirittura chi giura che, nei giorni di gloria, abbia fatto piangere Bob Dylan – e che è finito a fare il guardiano in uno zoo, sembra invece una diretta filiazione del Sixto Rodriguez di Searching for Sugarman.
Tutto il film ruota infatti attorno alla ricerca, lunga un giorno, di questo beautiful loser.
E’ soprattutto il fan quindicenne Tomàs (Sebastiàn Aguirre), una volta appreso dai giornali delle sue pessime condizioni di salute, a volerlo incontrare, ma lo accompagnano il fratello maggiore Fede (Tenoch Huerta Mejìa), il coinquilino di quest’ultimo e Ana (Ilse Salas) la ragazza di cui Fede è segretamente innamorato da anni.
Sullo sfondo l’eco dei movimenti studenteschi che scossero il Messico alla fine degli anni novanta e la sensazione, palpabile in ognuno dei protagonisti, che tutto stia per cambiare da un momento all’altro.
Ed è interessante come un’opera che palesa, citandoli, tutti i propri padri putativi, prenda le mosse proprio dall’assenza di una padre fisico (i due fratelli Tomàs e Fede sono stati cresciuti solo dalla madre) e dalla ricerca di una figura che, sebbene solo attraverso la musica, in qualche modo ne faccia le veci. Perché, in mancanza di un padre di cui riconoscere i limiti, il processo di crescita deve per forza di cose passare attraverso altri snodi, come l’atto di affrontare il mito guardandolo dritto negli occhi, per spogliarlo almeno in parte della sua componente mitologica.
Nel livido bianco e nero di Ruizpalacios cinema di protesta, storia d’amore e racconto di formazione si fondono con invidiabile leggerezza senza che nessun elemento prevalga mai in maniera netta sugli altri.
In particolare piace di Güeros il montaggio sporco e la scrittura fieramente sghemba, così ricca di digressioni (esilarante quella in cui uno dei protagonisti si interroga sul perché la colazione continentale si chiami così) che restituiscono perfettamente l’idea di un periodo della vita in cui è bandita ogni fretta e il valore che attribuiamo al tempo non è ancora così alto come sarà poi nell’età adulta. Così come convince nel suo essere uno strano road movie urbano – di fatto non ci si muove da Città del Messico – in cui lo spostamento risulta essere molto più mentale che fisico.
Ma, indipendentemente dai suoi indubbi meriti stilistici, il film di Ruizpalacios è un piccolo grande elogio del romanticismo per cui è proprio difficile non provare simpatia.
Voto 7
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
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