Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Una storia vera di demoni e possessioni, sequel di un’altra storia vera di demoni e possessioni che ripercorre i topoi tradizionali, cari all’horror classico, concedendosi molto in quanto a stile e ad atmosfere create. The Conjuring – Il caso Enfield è il seguito ai fatti di Amityville. Infatti, dopo aver affrontato il caso di Amityville, che aveva lasciato i coniugi Warren stravolti e bisognosi di una pausa alla fine del 1977, Ed (Patrick Wilson) e Lorraine (Vera Farmiga) vengono inviati dalla Chiesa di Roma a Londra, per indagare su quello che stava trasformandosi nel caso di possessione demoniaca più documentato e famoso della storia. Una volta giunti nella capitale britannica , in teoria solo per accertarsi della veridicità o meno del caso, Ed e Lorraine si ritrovano, loro malgrado, di nuovo coinvolti in un caso sconvolgente. Nel quartiere popolare di Enfield sta infatti succedendo qualcosa di inspiegabile: la famiglia Hodgson sta combattendo contro un’entità demoniaca che ha infestato la loro fatiscente casa.
Un film le cui riprese sono iniziate con la benedizione del set, del cast e della troupe da parte di un esorcista, non può che promettere bene, soprattutto se a dirigerlo c’è quel fenomeno di James Wan, regista di Saw – L’enigmista e dei due Insidious, nonché dell’ultimo Fast & Furious e che, a quarant’anni, vanta già una carriera da veterano. Appartenendo alla generazione terrorizzata da L’esorcista, da Poltergeist e dai J-Horror, Wan riprende e cita a più non posso da tutto quanto ha contribuito alla sua formazione artistica, rinnegando in un certo senso i suoi inizi, caratterizzati da sangue e budella in bella vista (Saw), e abbracciando definitivamente un immaginario più “pulito” ma non meno evocativo, come altalene che iniziano a dondolare da sole, porte che cigolano e altre trovate sinistre.
Nulla di nuovo, dunque. Sì e no, perché se da un lato Wan si inventa poco o nulla, dall’altro è come se volesse ripartire da zero (lo aveva già fatto nel 2013 con il primo The Conjuring), inserendosi all’interno di un sottofilone sin troppo abusato come quello delle case infestate e delle possessioni demoniache per ricominciare da capo, andando a scavare questo tipo di orrore partendo dalle fondamenta e, nel farlo, compensa la scarsa creatività tematica con capacità tecniche sbalorditive. Che il regista malese naturalizzato australiano fosse un virtuoso della MDP non è certo una novità, e in The Conjuring – Il caso Enfield ne fornisce ulteriore prova: le atmosfere da brivido, la costruzione della tensione, gli oggetti utilizzati come mezzo per diffondere terrore, per non parlare di un paio di piani sequenza che tolgono letteralmente il fiato.
Però, al netto del lodevole esercizio di stile, Il caso Enfield stenta a decollare, si perde in intili lungaggini (la stesa durata, di due ore e un quarto, è impensabile per un horror) e in alcuni passaggi, soprattutto nel finale, sembra quasi avvolgersi su se stesso perdendo di vista le intenzioni seminate poco prima.
Una gran bella lezione di cinema, ma si poteva fare decisamente di più.
Voto 5,5
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
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