Il piano di Maggie – A cosa servono gli uomini

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Divertente, romantico e malinconico, perfettamente a metà tra Woody Allen e Noah Baumbach (da cui ha peso in prestito la musa), Il piano di Maggie irrompe nelle sale in un periodo dell’anno non congeniale. Ed è un peccato perché si tratta di una commedia sofisticata da ottobre pieno, che meriterebbe più attenzione. Prendendo spunto da una delle quattro storie contenute in A cosa servono gli uomini di Karen Rinaldi (appena pubblicato in Italia da Rizzoli), Rebecca Miller (se ve lo state chiedendo, sì, è la figlia di Arthur ed è anche la moglie di Daniel Day Lewis) confeziona un film acuto e brillante, profondo e delicato, che rivisita temi ampiamente battuti con un guizzo in più e un’ironia dirompente che non può che conquistare.



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Greta Gerwig è Maggie Hardin, un’allegra e affidabile trentenne newyorkese, che lavora come insegnante. La sua vita Maggie è pianificata e organizzata fin nel più minimo dettaglio e anche la sua decisione di avere un figlio da sola, rientra nei suoi programmi. È a questo punto che conosce John Harding (Ethan Hawke), uno scrittore/antropologo in crisi matrimoniale, infelicemente sposato con Georgette Nørgaard (Julianne Moore), brillante professoressa universitaria danese. Mentre i suoi amici Tony e Felicia (Bill Hader e Maya Rudolph), stanno a osservare sarcasticamente dalle retrovie, la vita di Maggie, si intreccia con quella di John e Georgette, dando vita a un divertente quanto inaspettato triangolo amoroso.

La Maggie di Greta Gerwig non ha nulla da invidiare alla Frances-Ha, né alla Brooke Cardinas di Mistress America. Anche lei è un’eroina dei nostri giorni, hippie e funky al punto giusto con quei cappelloni di lana e i collant colorati, svampita ma con un forte senso etico e un’energia contagiosa. L’attrice, nell’ennesimo ruolo da outsider che le calza a pennello, imperfetta e incredibilmente vera, divide la scena con un Ethan Hawke inappuntabile nel ruolo del maschio intorpidito e semi-apatico, vittima delle macchinazioni femminili, e con un’esilarante Julianne More (che nella versione originale ha uno spassoso accento danese) alle prese con un personaggio dall’emotività compromessa. Così una storia di ordinaria manipolazione sentimentale diventa un fresco spaccato di vita che ha il pregio di non scadere nella banalità.

Voto 7

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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