Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Presentato In Concorso a Venezia nel 2013, la quarta regia del giovane talento canadese Xavier Dolan che lo ha scritto, diretto, montato e interpretato quando aveva ventiquattro anni, Tom à la ferme, arriva nelle nostre sale con un ritardo che è servito probabilmente solo a far crescere e brillare ancor di più la stella Dolan. L’astro di un Autore con la a maiuscola, in grado di perseguire la propria idea di cinema, portando sullo schermo le sue paure, idee e visioni, senza preoccuparsi di dover compiacere lo spettatore.
Tom à la ferme può essere raccontato in vari modi: è un film sull’assenza, ma anche sul senso di colpa e sull’espiazione di quest’ultimo, sull’elaborazione del lutto, sull’amore, certo, ma anche sul desiderio di voler ristabilire ad ogni costo un ordine che è venuto a mancare.
La storia raccontata è quella di un giovane pubblicitario, Tom (Xavier Dolan), che arriva in campagna per un funerale e scopre che laggiù nessuno conosce il suo nome né la natura della sua relazione con il defunto. Quando il fratello maggiore di quest’ultimo (Pierre-Yves Cardinal) impone un macabro gioco fatto di bugie e di omissioni per proteggere la madre (Lise Roy) e il buon nome della famiglia, tra di loro si instaura una relazione perversa che potrà risolversi solo con l’affiorare della verità.
Di un cinema così schietto, a tratti improvvisato, spoglio e formalmente forse ancora acerbo, ma ricco di emotività e di tensione e realizzato da qualcuno che ancora non è stato risucchiato dai morbosi meccanismi produttivi dell’industria, non si può che apprezzare la freschezza unita al desiderio di voler raccontare personaggi e situazioni già del tutto plasmate nella mente di Dolan: quello che appare sullo schermo, allora, non è altro che una naturale appendice del flusso di coscienza dell’autore. Il senso dell’oppressione e della claustrofobia Dolan la rende ancora una volta con quello che è diventato uno dei suoi marchi stilistici più riconoscibili, il cambio di aspect ratio, con le bande nere in cima e ai piedi dell’inquadratura che scompaiono e riappaiono a seconda del momento.
Il giovane regista québecois confeziona un film difficilmente ascrivibile a un ventiquattrenne, soprattutto a un ventiquattrenne di oggi. E va bene che non si tratta di uno script originale (è basato sull’opera teatrale di Michel Marc Bouchard), ma la costruzione dei dialoghi, i legami tra i personaggi, le dinamiche morbose che si instaurano tra loro, rimandano al teatro di Tennessee Williams, di Harold Pinter, così come al cinema del gioco al massacro tanto caro a Polanski (La morte e la fanciulla, Carnage). Perfettamente a proprio agio con i temi cari al melodramma classico (i sentimenti allo sbando, i destini piegati, lo squallore dei comportamenti sociali, le forti pulsioni), Dolan riesce a infondergli nuova vita, mostrando l’implosione di una famiglia apparentemente tradizionale dall’interno, puntando tutto sulle suggestioni e sul non detto. Ventiquattro anni.
Voto 7,5
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
A metà fra thriller e melodramma, la quarta regia di Xavier Dolan è cinema sospeso sul filo della verità.
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