Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Per parlare di questo La notte del giudizio – Election Year, terzo capitolo della saga di James DeMonaco, si potrebbe tranquillamente partire dalla fine. Da quell’I’m Afraid of Americans cantato da un già maturo David Bowie sui ritmi industriali che accompagnano i titoli di coda amplificando, qualora che ne fosse bisogno, la valenza profondamente politica del film.
Perché The Purge, prima ancora di essere un mirabile esempio di franchising distopico lanciato alla conquista del box office (ché il produttore Jason Blum, del resto, per queste cose ha occhio) è una disamina spietata, quanto lucida, di alcune delle derive più allarmanti della moderna politica a stelle e strisce, soprattutto per quanto riguarda l’annosa questione dell’eccessiva facilità dell’accesso alle armi.
Nel film le elezioni presidenziali sono infatti alle porte e uno degli argomenti che accende maggiormente gli animi dei candidati alla Casa Bianca è l’opportunità di abolire o meno l’orrenda pratica dello ‘Sfogo’, ossia quell’unica notte all’anno – fortemente voluta dai Nuovi Padri Fondatori per calmierare ogni forma di dissidio sociale – in cui tutte le leggi vengono a cadere e persino l’omicidio diventa lecito.
La senatrice progressista Charlie Roan (Elizabeth Mitchell) che, diciotto anni prima, ha assistito impotente alla strage della propria famiglia, ha costruito tutta la sua campagna elettorale combattendo questa tradizione ormai trentennale che, di fatto, privilegia i potenti ai danni dei ceti meno abbienti. Quando i sondaggi iniziano a darla in vantaggio rispetto ai Nuovi Padri Fondatori, questi decidono di depenalizzare, durante il prossimo imminente Sfogo, anche l’omicidio di personalità pubbliche fino ad allora considerate intoccabili.
Il caso – e forse anche un’oculata strategia di marketing – vuole che un film che prende le mosse da una campagna presidenziale tutta giocata sull’uso tollerato della violenza, esca proprio a ridosso delle elezioni che vedono Donald Trump superare a destra persino gli ultraconservatori Nuovi Padri Fondatori di DeMonaco.
Ma, se si prescinde da alcuni inevitabili e inquietanti paralleli con personaggi reali, ciò che convince di più in questo La notte del giudizio – Election Year è la sua capacità di generare del sano intrattenimento partendo però da certe istanze sociali tipiche del filone blaxploitation (l’elemento razziale nel film è centrale) e ibridandole con il miglior artigianato eighties. Ovviamente parliamo di Carpenter, laddove nessun film che mostri un gruppo di persone tenute sotto assedio da una minaccia esterna può davvero prescindere dal richiamare alla mente il seminale Distretto 13 – Le brigate della morte ma anche di un autore ormai da tempo ingiustamente sottovalutato come Walter Hill. Se infatti già il secondo The Purge (Anarchy – La notte del giudizio) pagava un evidente pegno al suo I guerrieri della notte, qui si procede attingendo a mani basse alle suggestioni di un altro – e questa volta misconosciuto – capolavoro di Hill, I trasgressori.
E’ cinema politico di livello assoluto, ricco di violente bordate non solo alla politica ma anche alla chiesa, qui considerata tutt’uno con le correnti governative più retrive e conservatrici, e, allo stesso tempo, non privo di alcuni amari risvolti ironici.
Detto del suo coté, per così dire, extradiegetico, il film di DeMonaco funziona alla perfezione anche come puro oggetto di entertainment, forte di uno script tesissimo e privo di tempi morti e di una regia mai banale, all’occorrenza capace anche di guizzi che esulano dall’immaginario di riferimento che è e rimane quello della serie B di lusso. E volendo proprio trovargli una pecca, potremmo giusto dire della monodimensionalità che caratterizza i personaggi principali, dall’eroismo spiccio e un po’ coatto del protagonista – il confermato Frank Grillo – all’eccessiva propensione al sacrificio della senatrice, passando per la saggezza di strada del gestore di minimarket afroamericano stranamente non interpretato da Samuel L.Jackson.
Per quanto anche quello che potrebbe essere visto come un difetto rientra in realtà in un discorso più ampio di recupero di alcune regole cardine del cinema di genere, come ad esempio il poco spazio concesso all’introspezione e alle sfumature psicologiche in virtù di una divisione del mondo squisitamente manichea in cui, se non sei un buono, non puoi essere altro che uno dei cattivi.
Voto 7
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