Il diritto di uccidere

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Già nella passata stagione cinematografica Good Kill di Andrew Niccol aveva acceso i riflettori sull’annosa questione droni, approfondendo il malessere di chi li pilota, ma ora con Il diritto di uccidere, l’attenzione si sposta sulle conseguenze legali ed etiche dell’impiego dei SAPR (Sistemi Aeromobili a Pilotaggio Remoto) e sulle difficili decisioni da prendere da parte di chi si trova nella stanza dei bottoni. Il tema è quantomai spinoso e la pellicola di Gavin Hood, partendo dal presupposto secondo cui una guerra condotta con mezzi etici dovrebbe prevedere la possibilità di difendersi e contrattaccare, analizza uno scenario morale tutto sommato ancora troppo fresco e recente per essere ben definito.
Se è vero infatti che ormai qualche chilo di materiale di ultima generazione e un computer riescono ad aprire nuove frontiere nella gestione dei conflitti, è altrettanto innegabile quanto una simile innovazione porti con sé una serie di problematiche tutt’altro che di facile soluzione, soprattutto a livello deontologico, per i militari coinvolti.



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Ne Il diritto di uccidere l’azione si svolge in quattro stanze sparse in varie parti del mondo: l’esercito britannico ha rintracciato tre terroristi in cima alla lista dei ricercati. Sono tutti nella stessa casa, alla periferia di Nairobi, e si stanno preparando per sferrare un attacco suicida in non si sa bene quale affollato luogo. E’ l’occasione giusta per eliminarli in un solo colpo e per sventare un attentato ormai certo. Per farlo, il Colonnello Powell (Helen Mirren) si avvale di un drone americano, pilotato in Nevada dal giovane ufficiale Steve Watts (Aaron Paul), ma quando diventa inevitabile dare il via all’operazione, entrambi realizzano che anche un innocente finirebbe tra le vittime. Mentre nessuno dei politici nella “war room” londinese, il cui rappresentante militare è il Generale Benson (un superbo Alan Rickman qui alla sua ultima prova), vuole prendersi la responsabilità di una simile decisione, una serie di eventi imprevisti contribuiscono a rendere la situazione ancora più concitata.

Quello che a una prima occhiata sembra un “semplice” war movie, si trasforma pian piano in un thriller politico perfettamente strutturato e ben congegnato, fatto di dialoghi serrati e di silenzi tesi e dominato, soprattutto nella seconda parte, da una suspense costruita ad hoc.
In un tempo in cui anche le guerre si combattono da remoto, un film come Il diritto di uccidere solleva la questione della disumanizzazione dei conflitti e dei cosiddetti danni collaterali che l’utilizzo di questo tipo di velivoli può causare (scarse implicazioni, minore responsabilità nel prendere decisioni cruciali…). Eppure l’idea che i robot potrebbero sostituire del tutto l’uomo in combattimento resta estremamente controversa e, uscendo dalla sala, si viene spinti a riflettere: chissà se, in un futuro neanche troppo lontano, gli esseri umani potranno essere esclusi dal decidere se far fuoco o meno su un obiettivo?

Voto 7

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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