MIA Market 2019: la quinta edizione sarà dal 16 al 20 ottobre
— 2 giugno 2019Torna l’appuntamento per i leader dell’industria audiovisiva.
Se è vero, come diceva Eco, che “due cliché fanno ridere, ma cento commuovono”, probabilmente Damien Chazelle, portato alla ribalta dal trionfo di Whiplash, ha preferito restare sul sicuro e peccare per eccesso: La La Land insegue la tradizione agrodolce e malinconica di È sempre bel tempo e Les parapluies de Cherbourg per raccontare una storia di sogni inseguiti e infranti, di speranze accarezzate e disilluse, di aspettative e di rimpianti, ma senza quell’elemento perturbante e quel senso di realtà che permeavano i capolavori di Donen e di Demy.
Chazelle conferma l’estrosità, il brio, la vivacità e la natura sincopata del suo cinema facendo deflagrare ed esplicitando l’anima jazz delle sue opere precedenti in una sorta di Come eravamo moderno a ritmo di musica, ma trasforma l’esperimento compiuto da Coppola con lo sfortunatissimo (e straordinario) Un sogno lungo un giorno in un epigono che, pur ricalcandone soluzioni e stilemi – in primis il ricorso al piano sequenza, in totale contrasto con il delirio di montaggio del suo film precedente, e lo studio fisiologico del colore e della luce -, è qui rivisto, semplificato e parafrasato a uso e consumo di un pubblico meno esigente: se l’intenzione era quella di restituire genuinità e sana ingenuità al genere, il passo verso il kitsch, come nel caso della pessima sequenza “cosmica” dentro l’Osservatorio Griffith, rischia spesso di farsi breve e di sfociare nel ricatto (il finale in chiave what-if, tanto artefatto da disinnescare la commozione).
Lo spettacolo, sulla distanza, è salvo, grazie anche a un’alchimia trascinante fra i due indovinatissimi protagonisti, spontanei ai limiti dell’impaccio, e all’energia dell’elemento coreografico, ripreso per lo più senza stacchi con il contrappunto di frequenti panoramiche a schiaffo, ma l’emozione ricercata a bella posta e didascalizzata all’eccesso, l’invasività della (autoreferenziale) riflessione nostalgica – non manca la prevedibile giaculatoria anti-tecnologica – e la tendenza a soffocare il pathos in favore di un tono più conciliante confermano La La Land come nient’altro che un vezzoso, ancorché piacevole, esercizio di stile.
Voto 6,5
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