Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Raro esempio di sequel che è però anche uno spin-off, Alla ricerca di Dory si svolge tre anni dopo i fatti narrati in Alla ricerca di Nemo e si concentra su un personaggio che, in quel film, assolveva la funzione di puro elemento comico.
Quel pesce chirurgo affetto da continui vuoti di memoria – Dory per l’appunto – che un vago quanto improvviso flashback della propria infanzia spinge a intraprendere una nuova avventura nei fondali oceanici alla ricerca dei genitori perduti (e dimenticati) tanti anni prima.
Ad accompagnarla – in una coraggiosa inversione del rapporto fra protagonisti – ci sono sempre Merlin e suo figlio Nemo, spalla che ha qui il sapore di un adorabile contrappasso emotivo, anche se, questa volta, la disabilità da superare non è più di natura fisica (la pinna atrofica del piccolo Nemo) ma addirittura neurologica.
È assai arduo infatti anche solo pensare di poter cercare qualcuno mentre una serie continua di amnesie ti portano a dimenticare persino chi stai cercando.
Ecco dunque che il viaggio, da ricerca di qualcuno, si trasforma ben presto in una tenera e rocambolesca ricerca di sé e del proprio tempo perduto di cui è sinceramente difficile non innamorarsi all’istante.
Alla ricerca di Dory rappresenta così il terzo centro pieno in poco meno di un anno per la Disney (dopo due capolavori come Inside Out e Zootropolis) oltre a essere un autentico colpo al cuore per chiunque.
Un film tecnicamente magnifico, che finge di adagiarsi su uno dei maggiori successi commerciali della casa madre per spingersi in realtà ben oltre. Laddove infatti Alla ricerca di Nemo rappresentava l’ennesima, sebbene riuscitissima, declinazione di un coming of age di cui ormai alla Disney sono maestri indiscussi, con questo sequel si ha la netta impressione di trovarsi al cospetto di un’opera ben più complessa e concettuale, in cui il discorso sull’accettazione e il conseguente superamento dei propri limiti cede ben presto il passo a una riflessione nient’affatto scontata sull’importanza della memoria.
L’impianto drammaturgico è quasi sperimentale, con la storia che procede per ellissi e i personaggi di contorno (occhio allo scorbutico polpo Hank e al beluga con problemi di geolocalizzazione, due classici istantanei) a fungere da stampella mnemonica per la protagonista e, al contempo, da asse temporale all’intero film.
Un film che punta dritto al cuore, dispensando in maniera chirurgica risate e commozione fin dalla sua primissima e toccante scena. Pur mancando dell’elemento di novità del primo film, Alla ricerca di Dory gli risulta alla fine addirittura superiore, e non solo grazie alle innumerevoli innovazioni tecnologiche intercorse negli ultimi tredici anni, ma soprattutto perché figlio della maggiore e più sottile sofisticazione con cui ormai da anni la Disney costruisce meccanismi a più livelli, perfettamente fruibili sia da un pubblico adulto che bambino. Perché, sotto la superficie dichiaratamente pedagogica di un’opera che è comunque un gioioso inno all’accettazione di sé e dei propri difetti, c’è anche un chiaro invito a perdersi (onde poi ritrovarsi, è ovvio) che non può lasciare indifferenti e che fa il paio con la nascita della malinconia così mirabilmente descritta in Inside Out.
A quel punto l’oceano coi suoi abissi smette la sua funzione di mero fondale per diventare un vero e proprio luogo dell’anima, in cui il mostro peggiore in cui ci si possa imbattere non è neanche fisico ma ben più subdolo e immateriale e più o meno coincide con l’incapacità di mettersi in gioco, di uscire dall’acquario in cui si è immersi e provare un senso di appartenenza che vada oltre il colore delle proprie squame.
Ecco, forse il torto maggiore che si potrebbe fare a questo film non è nemmeno il non andare a vederlo, quanto il valutarlo come semplice sequel di un blockbuster.
Perché Alla ricerca di Dory è senza alcun dubbio molto di più.
Voto 7,5
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
Non chiamatelo sequel di Nemo, perché è molto ma molto di più. La nostra recensione.
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