The Beatles – Eight Days a Week

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The Beatles – Eight Days a Week è un documentario che racchiude al suo interno sia un ossimoro che una conferma. L’ossimoro è insito nello strano incontro tra il più classico dei registi americani viventi e la band inglese che più di ogni altra ha rivoluzionato il concetto di musica pop nel mondo. Un gruppo così avanti sul suo tempo da aver scritto canzoni che, alle orecchie di oggi, suonano ancora incredibilmente moderne.
La conferma invece è quella di Ron Howard come un autore perfettamente a proprio agio solo quando alle prese con grandi sfide apparentemente insormontabili, sia che si tratti di mettere in scena l’intervista impossibile di Frost a Nixon che di far vivere allo spettatore le sensazioni che si provano trovandosi nel bel mezzo di un circuito di Formula 1.
La fame di sfide deve essere la molla che ha spinto Howard – dopo la scommessa riuscita solo in parte di Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick – a cimentarsi adesso con un altro mito difficilmente esauribile in un unico film: i Beatles.
Un gruppo la cui storia è così ricca da richiedere un documentario per ogni disco inciso, uno per la svolta “indiana”e un altro anche solo per la genesi della copertina di Sgt. Pepper.
Basti pensare che Martin Scorsese, nel bellissimo Living in a Material World, ci ha messo tre ore solo per raccontare la vita di George Harrison, il più taciturno dei quattro.



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Ma Ron Howard bypassa l’ostacolo decidendo di andare a coprire uno degli aspetti meno battuti dei Fab Four, ossia la loro attività live.
Celebrati per lo più come band da studio, infatti, i Beatles smisero di suonare dal vivo nel 1966, ben prima di sciogliersi ma ormai stanchi di suonare in posti enormi (furono il primo gruppo rock a suonare in uno stadio) stipati di gente urlante in cui la loro musica si sentiva a malapena.
Ma nei primi quattro anni della loro breve ma intensa carriera suonarono tanto e ovunque, dagli Stati Uniti al Giappone fino a toccare anche l’Italia (nel film sono presenti le poche e sgranatissime immagini esistenti del mitico show tenuto dai quattro al Velodromo Vigorelli di Milano) e le Filippine, dove rischiarono anche l’incidente diplomatico per aver declinato un invito da parte della moglie del Primo Ministro.
Dalle prime esibizioni al Cavern Club di Liverpool fino al Candlestick Park di San Francisco, le immagini dei concerti dei Beatles sono accompagnate dalle loro stesse voci che ricordano quella folle evoluzione del fenomeno del divismo universalmente nota come “beatlemania”.
Lo stile lineare e perfettamente diacronico (non siamo insomma dalle parti dello stonesiano e più autoriale Crossfire Hurricane) è esclusivamente al servizio del soggetto trattato, restituendo attraverso la velocità della scansione temporale la frenesia di un fenomeno che venne spremuto in un lasso di tempo brevissimo dal manager demiurgo Brian Epstein.

Prodotto dalla Apple Corps e dedicato alla memoria di George Martin, scomparso lo scorso marzo, The Beatles – Eight Days a Week rifugge abilmente qualsiasi deriva agiografica e tratta l’argomento ‘Beatles’ spogliandolo di tutto l’eccesso di leggenda accumulato negli anni, quasi come si trattasse di una giovane band come tante altre e, se ha un solo difetto, forse è davvero in un minutaggio eccessivamente risicato.
È così che gli ultimi tre anni di carriera dei quattro – quelli in cui produssero i dischi più importanti – vengono liquidati in un solo fermo immagine.
Ma, come dicevamo all’inizio, il film non ha alcuna pretesa di onnicomprensività e preferisce concentrarsi sugli anni giovanili della band, prima che le droghe e i dissapori tra Lennon e McCartney rendessero tutto più complicato.
Prima ancora di Yoko Ono che appare in un angolo, sul tetto della Apple Records, in quella che è l’ultima esibizione in pubblico dei Beatles, scelta da Ron Howard come scena finale del suo film.
Per chi poi, oltre ad amare i Beatles, non avesse particolare fretta di abbandonare la sala dopo i titoli di coda, sappia che ci sono 30 minuti extra della storica performance di Lennon e soci allo Shea Stadium del 15 agosto 1965, in quello che fu il primo concerto rock di fronte a più di 55.000 persone.

Voto 7

 

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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