I magnifici sette

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Se lo scorso anno aveva dato uno scossone ai canoni tradizionali del western e restituito visibilità al suo immaginario con i capovolgimenti formali di Slow West, le estremizzazioni orrorifiche di Bone Tomahawk e le eccentriche reinterpretazioni di Revenant e di The Hateful Eight, il 2016 pare registrare una nuova, intempestiva battuta d’arresto per il genere cinematografico americano per eccellenza, cominciando dai clamorosi insuccessi del travagliatissimo Jane Got a Gun e dell’ambizioso Free State of Jones, fallimentari rentrées post-Oscar rispettivamente per Natalie Portman e per Matthew McConaughey, per arrivare ai tronfi sbrodolamenti grandguignoleschi di Brimstone, l’abisso del Concorso di Venezia73.



Non risolleva più di tanto la media l’altra incursione nella Frontiera inclusa nella vetrina lidense, posta emblematicamente in chiusura di rassegna a smorzare la tensione del clima festivaliero col suo piglio da blockbuster delle grandi occasioni: per descrivere il rifacimento de I magnifici sette, infatti, più che di “film” sarebbe opportuno parlare di “operazione”, il nuovo capitolo, non molto diverso dal Ghostbusters di Feig e del Ben Hur di Bekhmambetov, di una tendenza con cui Hollywood, con l’alibi più o meno pretestuoso dell’aggiornamento sociotecnologico, si ripiega su se stessa cercando di capitalizzare sul suo splendore passato col minimo dispendio di idee e col massimo coefficiente di glamour.

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Per attualizzare e rendere appetibile ai giorni nostri l’omonimo capolavoro del 1960, a sua volta – assai più puntuale – radicalizzazione occidentale de I sette samurai di Kurosawa di appena un lustro prima, la Metro-Goldwyn-Mayer si affida ai nomi di grido di turno, dallo sceneggiatore più chiacchierato della serialità contemporanea, il Nic Pizzolatto di True Detective – al debutto sul grande schermo – al più gestibile mestierante dell’action del nuovo millennio, l’Antoine Fuqua di Training Day e di Attacco alla Casa Bianca, infiocchettando il tutto con l’altisonanza di un cast per tutte le fasce soppesato con calcolo praticamente industriale, dall’inossidabile Denzel Washington al divetto in ascesa Chris Pratt, dall’eclettico Ethan Hawke al televisivamente resuscitato Vincent D’Onofrio, affiancati per l’occasione da un manipolo di comprimari di secondo piano, che annovera il coreano Lee Byung-hun, pupillo di Kim Jee-woon, etnicamente diversificato e composito.

È questa l’unica sensibile novità attorno alla quale tenta di trovare una ragion d’essere e una necessità questa seconda versione del classico di John Sturges, la riproposizione di una mitologia consolidata da decenni al netto del multiculturalismo e, come suggerisce il luciferino magnate interpretato da Peter Sarsgaard, della deriva imprenditoriale di oggi, ma tutto, oltre a suonare abbastanza implausibile, resta molto poco approfondito e relegato alla superficie: il rapporto fra i membri della comitiva chiamata in soccorso dalla paciosa comunità di Rose Creek non va mai oltre il generico cameratismo e a farne le spese è fatalmente quel misto di tensione e di affiatamento che rendeva così coeso, irresistibile e ben oliato il nucleo originario, di cui sopravvivono forse i caratteri generali (il veterano, il reduce tormentato, il giovane scavezzacollo, il reietto, e così via), ma di cui sfuggono la vera personalità, con il fuorilegge messicano di Manuel Garcia-Rulfo e il guerriero Comanche di Martin Sensmeier a non esistere al di fuori della loro dichiarata appartenenza minoritaria e, ancor più, l’interazione col prossimo, limitata da scambi dialogici di poca sostanza e dalla scelta di Fuqua di intervenire con una messinscena e un montaggio che, nelle scene d’azione, pare isolare ogni personaggio per conto proprio.

La colpa è principalmente di un comparto attoriale male assortito e poco omogeneo, a partire dall’affidamento del ruolo principale a uno Washington non solo spento e incapace di competere con il magnetismo di Yul Brynner, ma anche – a differenza del Danny Glover di Silverado o del Morgan Freeman de Gli spietati – penalizzato da un rimescolamento etnico che suona ingiustificato nei compartimenti relativamente stagni del selvaggio West; se un Hawke definitivamente sfiorito, poi, si conferma, lontano da Linklater, come una specie di John Malkovich dei poveri e Pratt non fa che riproporre ad libitum il prototipo guascone de I guardiani della galassia e di Jurassic World, l’unica sorpresa – e forse l’unico tratto autenticamente pizzolattiano – è il delirante predicatore di Vincent D’Onofrio, sconsideratamente sottoutilizzato e liquidato senza troppi complimenti.

Se da buttare è anche il cast di contorno, con l’antagonista Sarsgaard, tutto occhi spiritati e affettazione dandy, a sfiorare l’impalpabilità di un qualsiasi villain Marvel e la vedova reclutatrice Haley Bennett – nulla più di una controfigura low-budget di Jennifer Lawrence – a fare da sfondo fino alla (ridicola) trasformazione in deus ex machina del finale, non resta molto altro da salvare se non il tono consapevolmente scanzonato dell’insieme, che dimostra però quanto poco Fuqua abbia capito – o abbia voluto riproporre – dell’epica e della nobiltà della pellicola capostipite e del western classico, concentrandosi sugli aspetti più cool, semplicistici e di facile presa, declassando il tutto al livello di un popcorn-movie come tanti altri.

E il leggendario tema musicale di Elmer Bernstein sfoderato a tradimento soltanto sui titoli di coda è lo scatto definitivo e involontario con cui questo inoffensivo remake si inabissa al cospetto dell’originale.

Voto 5

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