Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
La verità sta in cielo è il film con cui Roberto Faenza vorrebbe ricostruire gli eventi che, nel giugno del 1983, portarono alla sparizione, in pieno centro di Roma, di Emanuela Orlandi, figlia quindicenne di un funzionario vaticano. Il condizionale, in questo caso, è d’obbligo perché Faenza non solo non aggiunge nulla al triste caso di cronaca che non sia già stato ripetuto più e più volte negli ultimi trent’anni, ma si rivela carente anche nell’unica cosa che poteva fare (anzi doveva) in assenza di risvolti inediti, ossia ricostruire in modo quanto più verosimile l’inquietante vaso di Pandora colmo di intrecci di potere che quello che sembrava un semplice rapimento andò poi a scoperchiare.
Invece l’autore riesce a toppare su tutto, ma andiamo per gradi.
Il film si apre infatti sull’unico personaggio fittizio della storia, una giornalista inglese di origini italiane (Maya Sansa) inviata in Italia per indagare sul caso Orlandi alla luce delle connessioni tra questo e lo scandalo di Mafia Capitale. Una volta giunta a Roma, la giovane reporter riesce ad entrare in contatto con Sabrina Minardi, ex fidanzata di Enrico “Renatino” De Pedis (Riccardo Scamarcio) decisa, dopo anni, a rivelare tutto ciò che sa sul coinvolgimento del boss della banda della Magliana nel caso Orlandi.
Ora, a parte capire quale folle scelta di casting abbia portato a prendere anche solo in considerazione Shel Shapiro per il ruolo di un direttore di un giornale britannico, non si comprende la necessità di scritturare Greta Scarano – attrice di appena trent’anni – per poi riempirle la faccia di silicone fino a renderla irriconoscibile e costringerla a recitare nei panni di una Minardi ormai sessantenne.
Lungi dall’essere elementi periferici e quindi non suscettibili di compromettere la riuscita del film, questi sono due esempi di come il lavoro sulla ricostruzione anche solo estetica di un periodo chiave della nostra storia recente sia stato svolto in maniera approssimativa, per non dire raffazzonata. Che poi un regista di esperienza decennale, sebbene dai risultati alterni, costruisca un film dichiaratamente di fiction come una mera sequela di scene a due in cui un personaggio racconta all’altro una parte della (sua) verità è inaccettabile, sia da un punto di vista stilistico che etico. Complici forse i limiti di budget, ne La verità sta in cielo quasi nulla viene mostrato, con un risultato che, lontano anni luce anche dalla peggiore serialità nazionalpopolare, si avvicina pericolosamente alle ricostruzioni filmate di programmi come Chi l’ha visto? o Blu notte.
Ora, non c’è alcun dubbio che gli ultimi cinquant’anni della storia criminale italiana rappresentino una fonte inesauribile di materiale (lo sa bene Giancarlo De Cataldo che, su questo, ci ha costruito una carriera) e la nostra cinematografia, in passato, vi ha giustamente attinto scrivendo pagine memorabili di cinema civile.
Senza neanche andare a scomodare Francesco Rosi o Elio Petri, basterebbe ricordare il dignitosissimo lavoro svolto da Giuseppe Ferrara (da Il sasso in bocca fino a Il caso Moro) o da Marco Tullio Giordana con Pasolini, un delitto italiano e l’ingiustamente snobbato Romanzo di una strage.
Si trattava di ricostruzioni fedeli, del tutto prive delle inspiegabili velleità investigative di autentici pastrocchi come questo di faenza o il recente La macchinazione di David Grieco. Di fronte a una tale pochezza di messa in scena si sarebbe preferito di gran lunga assistere a una docufiction (che pure il film di Faenza, a tratti, sembra simulare) o a libera rilettura in chiave di genere, una di quelle che avrebbe potuto fare il Michele Placido di Vallanzasca – Gli angeli del male con una buona sceneggiatura per intenderci.
Stupisce, più che altro, la decisione di un’attrice brava come Maya Sansa e di uno lanciato come Riccardo Scamarcio di essere associati a un film di qualità così risibile.
Roba da prima serata su Rai 1, a riempire lo spazio rimasto vuoto in palinsesto tra una stagione e l’altra di Don Matteo.
Voto 2
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