In guerra per amore

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Complice forse l’inaspettato successo del suo esordio cinematografico La mafia uccide solo d’estate, qualcuno a un certo punto deve aver convinto il buon Pif di poter ambire al posto lasciato vacante da Roberto Benigni. Ed eccoci quindi a parlare di In guerra per amore, opera seconda indubbiamente più ambiziosa sia in termini narrativi che di mero budget.
Siamo infatti nel 1943 e, mentre il mondo è nel pieno della seconda guerra mondiale, Arturo (Pif) vive a New York e, come molti emigranti, fa il lavapiatti in un ristorante italiano.
Ha inoltre una storia d’amore con Flora (Miriam Leone), resa travagliata dal fatto che lei sia promessa in sposa al figlio di un importante boss mafioso.
L’unico modo per riuscire a sposare Flora è ottenere il sì del padre che vive in un paesino siciliano e Arturo, senza un dollaro in tasca, non trova altro modo per raggiungere l’isola che arruolarsi nell’esercito americano che sta preparando lo sbarco in Sicilia, l’evento che cambierà per sempre la storia della Sicilia, dell’Italia e della Mafia.



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Il riferimento a Benigni, e di rimando alle ambizioni dell’opera, sono relativi senz’altro ad un’ambientazione storica come quella del secondo conflitto mondiale approcciata con toni che non possono non ricordare la La vita è bella.
Solo che l’autore è evidentemente consapevole della propria incapacità di reggere l’intera struttura del film sulle sue spalle – sostanzialmente Pif non sa recitare – e si gioca così la carta della coralità, costruendo altre due o tre linee narrative.
C’è infatti un tenente italoamericano (Andrea Di Stefano) via via sempre più allarmato dalla deriva che la collaborazione tra esercito americano e criminalità organizzata potrebbe avere, una donna che un figlio piccolo (un bambino in questo genere di storie ci deve comunque essere) mentre attende il ritorno del marito dal fronte e una coppia di poveracci, uno zoppo e l’altro cieco, protagonisti di alcuni dei momenti oggettivamente più riusciti del film.
Un film che – è importante dirlo – non è possibile bollare come brutto. Per dire che Pif non è un Pieraccioni qualsiasi e un’idea di cinema più o meno ce l’ha.
Quello che gli manca semmai è il coraggio di prendere una direzione che prescinda dall’omaggio un po’ scontato ad alcuni classici del versante più impegnato della commedia all’italiana, Tutti a casa di Comencini o La grande guerra di Monicelli in primis.

Diamo infatti per scontato che la natura paratelevisiva del personaggio Pif in qualche modo gli imponga di essere presente sullo schermo, così come le finalità più squisitamente commerciali dell’opera abbiano indirizzato il mood su quella commedia romantica da cui nessun autore/attore italiano (tranne forse il Verdone più maturo) sembra riuscire a svincolarsi.
Ma in ogni caso è un peccato che l’elemento di maggiore interesse di tutta la storia storia – il potere conferito dagli Stati Uniti alla Mafia come moneta di scambio per l’aiuto ottenuto durante lo sbarco in Sicilia – venga utilizzato come puro sfondo per quasi due terzi del film.
Tanto più che nell’ultima parte, quando questa traccia prende invece il sopravvento sulla storiella d’amore stravista tra il bruttino dal cuore d’oro e la gnocca inspiegabilmente invaghita di lui, Pif ci dà un chiaro esempio di quello che il film avrebbe potuto essere se solo si fosse osato di più.
Se solo non ci si fosse limitati a giustificare l’importanza del budget con una grandeur da Tornatore minore (soprattutto per l’uso eccessivo e onnipresente della musica) e sforzati di far ridere mancando il più delle volte il bersaglio.
Ecco invece che nella sola amarissima scena finale, quella in cui si rivela la reale natura della nascita della Democrazia Cristiana, si intravede il Pif che vorremmo approfondire nei prossimi film.

Voto 5,5

 

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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