Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Non c’è un solo luogo comune che non venga cavalcato all’inverosimile nell’ultimo film dei fratelli Vanzina Non si ruba a casa dei ladri. L’immaginario di riferimento è infatti quello tipico delle barzellette in cui il napoletano è sostanzialmente onesto ma, all’occorrenza, capace di industriarsi come può e il romano volgare e maneggione.
Nello specifico il napoletano è Antonio (Vincenzo Salemme), titolare di un’azienda di pulizie che va in bancarotta quando un politico disonesto (Massimo Ghini) assegna, dietro lauta tangente, un grosso appalto a una ditta concorrente.
Pur di sbarcare il lunario Antonio finisce quindi a fare le pulizie insieme alla moglie Daniela (Stefania Rocca) nella villa di tal Simone Santoro, ignaro che il responsabile della sua sventura sia proprio il suo nuovo datore di lavoro.
Una volta scoperto il collegamento, i due decidono di vendicarsi andando a colpirlo proprio dove fa più male: in prossimità del portafogli.
Come numerose altre volte in passato (ad esempio nel quasi omonimo In questo mondo di ladri) Enrico e Carlo Vanzina aspirano a una sorta di nuova commedia all’italiana che parta da un’osservazione disincantata di certe storture del quotidiano e, fin qui, non ci sarebbe neanche nulla di male. Accade però che, volendo ironizzare sui recenti fatti di Mafia Capitale, i due autori manchino del tutto il bersaglio e si limitino a giocare blandamente con gli stereotipi più ritriti della politica arraffona, andando così a confezionare un’operina insipida che proprio non punge.
Sintomo evidente di una creatività che, ormai scollata dal reale, si rifugia nella sua versione cronologicamente più prossima, ovvero Tangentopoli. Di conseguenza il risultato è un film scritto, diretto e interpretato come se fossimo a metà degli anni ’90, ma del tutto privo del giochino autoreferenziale del citare se stessi che forse l’avrebbe salvato dalla sua spaventosa inattualità.
La verità è che i Vanzina semplicemente non si sono accorti – a parere di chi scrive più per incapacità manifesta che non per disinteresse – che, negli ultimi vent’anni, il malaffare ha cambiato sia le dinamiche che i soggetti interessati (oggi non è più il politico a dettare le regole del gioco ma personaggi ben più loschi e insospettabili) e continuano per la loro strada fatta.
A questo punto qualcuno potrebbe anche dissentire, sottolineando come il cinema dei fratelli Vanzina debba concentrarsi più nella costruzione di meccanismi comici che non in una corretta interpretazione del reale.
Ecco, per la verità Non si ruba a casa dei ladri fallisce anche su questo versante.
Perché non fa ridere, praticamente mai, se si prescinde dalle poche scene in cui recita Maurizio Mattioli che comunque una risata sarebbe capace di strapparla anche leggendo ad alta voce una cartella di Equitalia.
Spiace piuttosto per Salemme, svilito in un ruolo che non rende in alcun modo giustizia alla sua verve da capocomico e che, anzi, spinge a chiedersi davvero cosa lo porti ad accettare di mettere la faccia in un’operazione del genere.
Aggiornare i codici del film di truffa – uno dei capisaldi del cinema italiano da Totò fino a Smetto quando voglio – è senz’altro cosa buona e giusta e gli stessi Vanzina lo hanno fatto in modo dignitoso, neanche troppo tempo fa, con La mandrakata. Ma, in questo caso, i capostipiti del cinepanettone sembrano molto più attenti a dove piazzare l’ennesimo product placement che non alle finalità squisitamente ludiche che sembravano muoverli in passato.
Voto 2
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