Fai bei sogni

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Fai bei sogni è il singolare punto d’incontro tra due poetiche apparentemente in antitesi come quelle di Marco Bellocchio e Massimo Gramellini.
Da un lato abbiamo un cinema tutto costruito sull’astrazione, fatto di ellissi concettuali e, più in generale, di un processo di costante raffreddamento di qualsivoglia materiale emotivo. Dall’altro c’è invece una prosa che tende  ad amplificare l’elemento emotivo, fino a farlo spesso deflagrare in retorica.
In pratica un brano dei Queen rifatto da Lou Reed.
E, sebbene questo connubio forzato si risolva comunque in un film imperfetto, è comunque interessante notare come gli eccessi di entrambe le parti ne risultino stemperati.Succede infatti che, dopo aver raggiunto il proprio zenit sperimentale con Sangue del mio sangue, Bellocchio  rientri nei ranghi del cinema narrativo e, di rimando, che il romanzo autobiografico di Gramellini ne esca epurato dei picchi più fastidiosi di quella lacrimevole verve che lo ha comunque aiutato a diventare un best seller. La storia è, come è noto, quella di Massimo (Valerio Mastrandrea) che, dopo un’infanzia solitaria e un’adolescenza difficile, diventa un giornalista affermato pur continuando a convivere con il ricordo lacerante della madre scomparsa, nonché con il senso di mistero che aleggia intorno alla sua morte. Fino al giorno in cui una scoperta improvvisa cambia radicalmente il senso di quel lutto.



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Opera basata interamente sui vuoti, Fai bei sogni  parte dal rumore assordante di un’assenza quasi impossibile da metabolizzare perché mai compresa del tutto. Il vuoto per certi versi si fa anche stilistico e, in ottemperanza con la sua natura di lavoro su commissione, vengono a mancare proprio i segni più connotanti della cifra di Bellocchio. Certo, rimane la fotografia livida di Daniele Ciprì e l’utilizzo borroughsiano di un montaggio che utilizza scampoli di audiovisivo d’epoca in maniera fortemente diegetica, come del resto già fatto con i cinegiornali del periodo fascista nello straordinario Vincere. Le immagini televisive di Belfagor e Nosferatu sono in tal senso la proiezione delle peggiori paure del Massimo bambino che, di fronte alla più atroce delle perdite, si trasformano gradualmente da mostri cattivi in compagni di gioco, così come i tuffi di Giorgio Cagnotto alle Olimpiadi del ’70 suggeriscono in maniera incontrovertibile il senso della caduta verticale, centrale nel dramma del protagonista e nella sua epifania tardiva.
Per il resto si tratta però di uno dei film meno personali dell’autore pur ponendosi – ma in maniera del tutto casuale – come ideale appendice del suo ormai lontano esordio I pugni in tasca. Ci si sposta infatti da un figlio matricida a uno orfano che, liberandosi finalmente del ricordo di una madre adorata oltre ogni misura, in qualche modo ne uccide lo spettro e si concede così la possibilità di rinascere. O almeno di provarci.

Non c’è dubbio che una matrice letteraria così forte lavori quasi in direzione contraria all’usuale iconoclastia di Bellocchio che, nell’impossibilità di deragliare dalla traccia narrativa, sembra affidarsi in modo particolare a due personaggi secondari per imprimere la propria firma sull’opera.
Il primo è un magnate dell’industria corrotto – ispirato a Raul Gardini e magnificamente interpretato da Fabrizio Gifuni – che togliendosi la vita dinanzi al protagonista incredulo, di fatto apre una prima crepa nello spesso muro di anaffettività innalzato da quest’ultimo negli anni.
L’altro è invece un fumoso sacerdote (Roberto Herlitzka) attraverso il quale il regista ribadisce, a quindici anni da L’ora di religione, la sua idea di Chiesa come fondamentalmente incapace di rispondere alle domande esistenziali più gravose. Nel complesso resta l’impressione di un’opera profondamente irrisolta, indecisa tra il limitarsi a raccontare un dolore o invece perdersi tra tutto quello che gli gira intorno impedendogli di sfociare in pianto.
E la certezza che una durata minore (due ore e un quarto sono oggettivamente troppe) avrebbe senz’altro aiutato la fruizione, soprattutto in virtù dell’ampio bacino di lettori del libro al quale il film, presumibilmente, è indirizzato.

Voto 6,5

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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