Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Se una singola caduta tutto sommato la si perdona a chiunque, relegandola magari tra gli errori di percorso, quando queste iniziano a diventare due si può anche pensare che dietro ci sia del dolo. Questo è il pensiero che attraversa la mente di chiunque, guardando questo La cena di Natale, faccia l’errore di ripensare alla freschezza dei primi due film di Marco Ponti.
Ma andiamo per gradi e, per un attimo, facciamo finta che quest’ultimo non abbia mai diretto né Santa Maradona né A/R – Andata e ritorno e che questo sia solo il suo secondo film.
La cena di Natale è infatti il sequel di Io che amo solo te e trae anch’esso origine da un romanzo di Luca Bianchini. Uso il termine “sequel” perché i due film, così come i libri da cui sono tratti, si susseguono da un punto di vista temporale, ma sarebbe più corretto parlare di copia carbone perché tutti gli elementi che caratterizzavano il primo – e che, presumibilmente, ne hanno decretato il successo al botteghino – vengono qui riproposti senza la minima variazione sul tema. Senza contare che, a questo giro, viene a mancare anche l’elemento novità.
Laddove quindi in Io che amo solo te si narravano le rocambolesche vicissitudini che ruotavano attorno al matrimonio di Damiano (Riccardo Scamarcio) e Chiara (Laura Chiatti), compreso il tardivo ritorno di fiamma tra Don Mimì (il Michele Placido più gigione che possiate immaginare) e Ninella (Maria Pia Calzone), rispettivamente padre di lui e mamma di lei, qui il medesimo cast è raccolto attorno a un tavolo durante un cenone di Natale. Chiara e Damiano stanno per avere un bambino, anche se lui non ha perso l’abitudine di concedersi qualche scappatella extraconiugale, mentre la passione inespressa tra Don Mimì e Ninella è ancora palpabile e sempre sul punto di esplodere.
Racconto corale, romanticismo leggero che in qualche modo riesce a non sfociare mai nel miele e una Polignano a Mare che ritorna ad essere simulacro di una vita di provincia in cui tutti sanno tutto di tutti, si fondono in un’innocua commediola rosa in cui, più o meno fin dai titoli di testa, sai già come andranno le cose.
Di certo sai già che i protagonisti maschili saranno dei simpatici fedifraghi, sostanzialmente intimoriti dalle responsabilità della vita adulta, mentre le donne, sebbene petulanti, sono in fondo devote e, per questo, alla fine chiuderanno un occhio e tutto verrà perdonato.
Giusto in tempo per un parto di quelli fatti in casa, come si usava una volta.
La cena di Natale descrive un microcosmo sociale – o, se vogliamo, una dimensione parallela – in cui è accettabile e al limite fa anche sorridere che un marito tradisca una moglie all’ottavo mese di gravidanza, chieda scusa e la faccia franca nel giro di un paio di scene. Un mondo in cui un gay deve per forza accompagnarsi a un’amica lesbica (che, a sua volta, frequenta quasi esclusivamente trans) e il rude ma comprensivo sacerdote del paese sia depositario ai limiti della connivenza dei segreti di ognuno dei protagonisti. Ce n’è abbastanza insomma per mettere a dura prova la capacità di sospensione dell’incredulità anche dello spettatore meno smaliziato. A questo si aggiunga poi un pressappochismo tecnico che porta Scamarcio ad avere i capelli ricci in una scena e lisci in quella immediatamente successiva e il quadro è completo.
Ma, per chiudere come abbiamo iniziato, se a dirigere La cena di Natale fosse stato un qualsiasi Volfango De Biasi (al limite anche Fausto Brizzi) non ci sarebbe neanche tanto da inorridire, ché in fondo di film così in Italia ne escono una decina all’anno.
Che dietro la macchina da presa ci sia invece Marco Ponti un po’ dispiace.
Perché ha il sapore di una resa.
Voto 4,5
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