Non c’è più religione

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Immediatamente prima dei titoli di testa di Non c’è più religione, un cartello ci informa che in Italia non si fanno più figli e che, secondo le statistiche, ogni spettatore presente in sala ha 0,65 figli e ben 2,83 cellulari. Luca Miniero detta così le coordinate di una storia che vuole affrontare i temi della crisi delle nascite e dell’integrazione con leggerezza ma, allo stesso tempo, si gioca anche la battuta più divertente di tutto il film ancor prima che questo abbia inizio. Perché di rado in Italia si è visto un tentativo di commedia dalle pretese “sociali” (tra moltissime virgolette) così poco riuscito.
E dire che le forze in campo non erano neanche poche o di poco conto se consideriamo due attori di rango come Alessandro Gassmann e Claudio Bisio e il coinvolgimento, in sede di scrittura, di un veterano come Sandro Petraglia che, da Nanni Moretti a Gianni Amelio, ha comunque collaborato con il gotha del cinema italiano.
Il risultato, invece, non solo è risibile ma addirittura irritante nella sua manifesta pigrizia intellettuale. Non c’è un solo momento del film in cui si rida di gusto o, d’altro canto, si sia spinti a riflettere da una qualche angolazione inedita su un argomento spinoso – e in ogni caso topico – come quello del razzismo.



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La storia è quella di un’immaginaria isoletta del Mediterraneo dove ogni anno si realizza un presepe vivente per attirare i turisti.
Quest’anno però il bambinello titolare ha un problema: è un po’ troppo cresciuto e ha un accenno di baffi adolescenziali, insomma nella mangiatoia non ci sta proprio. A Porto Buio del resto le natalità sono ai minimi storici ma il bisogno di trovare un altro bambino
spinge il sindaco Cecco (Claudio Bisio), fresco di nomina dopo una disastrosa carriera politica al Nord, a chiederne uno in prestito alla comunità islamica che vive sull’isola, anche se l’idea non piace affatto alla frangia più conservatrice della popolazione.
La location isolana è solo il primo di una serie di elementi che contribuiscono ad allontanare la storia dai parametri che siamo soliti attribuire alla realtà, immergendola invece in una dimensione vagamente favolistica in cui tutti conoscono tutti e nessuno è mai davvero cattivo.
Errore imperdonabile per un film che, se ha davvero voglia di approcciare il sociale, non può esimersi dal pungere, almeno un po’.
Miniero si limita invece al minimo sindacale, tra un Alessandro Gassmann (napoletano poi) che si è costruito una nuova identità come leader di una comunità islamica perché deluso dalla chiusura mentale dei suoi connazionali e una suora (interpretata da una Angela Finocchiaro mai così irritante nella sua urgenza di voler strappare risate a tutti i costi) che è, allo stesso tempo, levatrice ormai disoccupata e titolare dell’unica pizzeria dell’isola.

Come se tutto ciò non bastasse, gli autori decidono di confondere le carte e di introdurre nella dicotomia tra cattolici e islamici un ulteriore elemento esotico, nello specifico la figlia del sindaco, buddista per moda e incinta di padre ignoto. Il fastidio che si prova nell’assistere a questo teatrino di luoghi comuni in cui qualsiasi mediorientale viene chiamato “kebabbaro” e un vescovo, confuso dall’apertura occidentale verso religioni altre, cerca di lavare i piedi a chiunque per riguadagnare un proprio ruolo almeno nella dimensione rituale, è più o meno lo stesso causato dalla conclamata pochezza dei cinepanettoni, anzi, in questo caso le velleità sociologiche rappresentano addirittura un aggravante. Di base c’è però la medesima malcelata mancanza di rispetto nei confronti di un pubblico che si ritiene possa sentirsi appagato da due battute messe in croce se, come qui, a pronunciarle c’è “quello che presentava Zelig”.
Verrebbe anche da rimpiangere il lavoro fatto dallo stesso Miniero su altri luoghi comuni in Benvenuti al Sud, se non fosse che allora ad assisterlo c’era comunque la solida traccia narrativa dell’originale francese. Così come, a voler essere cattivi, si potrebbero sottolineare le differenze tra il regista e il suo ex sodale Paolo Genovese (insieme girarono i loro primi tre film) nell’alzare un po’ l’asticella del cinema italiano di area più leggera. Con Perfetti sconosciuti, ad esempio, Genovese c’è riuscito, mentre, a giudicare da questo Non c’è più religione, Miniero sembra ancora lontano anche solo dal provarci.

Voto 3

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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