Collateral Beauty

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Se uno dovesse basarsi esclusivamente sul valore teorico di ognuno degli attori che compongono il cast, si potrebbe anche pensare a Collateral Beauty come ad un film con del potenziale.
Niente di più lontano dal vero purtroppo. Perché, a dispetto dei nomi coinvolti, il film di David Frankel (Il diavolo veste Prada, Io e Marley) è un pasticcio di generi (per lo più si rimbalza tra il melodramma puro e la commedia amara dal retrogusto indie) schiacciato sotto il peso di un’ambizione inspiegabilmente eccessiva.
Il concetto alla base dell’opera è quello dell’elaborazione del peggiore dei lutti, un vuoto gigantesco e impossibile da colmare per molti versi simile a quello meravigliosamente rappresentato da Kenneth Lonergan in Manchester by the Sea. Solo che qui siamo su ben alter coordinate, a metà strada tra il Canto di Natale dickensiano, Sette anime – di cui eredita il Will Smith più inespressivamente contrito che si riesca immaginare – e quell’Amabili resti che, sebbene a torto sottovalutato, per poco non costò la carriera a Peter Jackson, oltre ad affrettarne il ritorno nella Terra di Mezzo.



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La storia è quella di Howard, un manager di successo che, in seguito a un grave lutto, perde la voglia di vivere e dei suoi tre amici (e soci in affari) che, venuti a sapere delle lettere scritte dall’uomo al Tempo, all’Amore e alla Morte, assoldano tre attori perché impersonino queste entità e, dialogando con l’uomo, lo spingano a reagire.
Se la traccia di base è già di per sé azzardata nel suo lasciare che il piano allegorico confluisca nella realtà piuttosto che tentare il percorso inverso, l’innesto di una sottotrama romantica tra il protagonista e una donna che, almeno all’apparenza, sembra vivere un lutto molto simile al suo, rende il tutto francamente indigeribile.
Quando poi lo script (opera di tal Allan Loeb, già autore di mezzi disastri come Il dilemma, Wall Street – Il denaro non dorme mai e Rock of Ages) cerca di spiegare il significato del titolo, ecco stagliarsi all’orizzonte l’ombra del ridicolo involontario.
E a nulla serve neanche l’unica trovata che inizialmente sembrerebbe funzionare, ossia quella che sposta il proscenio dalle polverose assi di un teatrino off alla strada con lo scopo di rendere palesi i punti di contatto tra recitazione e vita vera, perché resa nulla, di fatto, da un insopportabile switch finale talmente delirante da lasciare lo spettatore sgomento e indeciso se interpretare il tutto come uno sberleffo autoriale ai limiti del situazionismo oppure chiedere indietro i soldi del biglietto.

Ora appare evidente come, in assenza degli attori forti di cui sopra, un film del genere avrebbe potuto esistere giusto in quel limbo fatto di film semi-inediti e straight to video e bazzicato giusto dai completisti di questa o quella star o da smanettoni con troppe domeniche pomeriggio libere.
Resta il fatto che vedere interpreti del calibro di Kate Winslet, Edward Norton o Helen Mirren coinvolti in un simile disastro fa male.
Per Will Smith neanche tanto perché, del resto, non ingarra un film buono dai tempi di Hancock ed è probabile fosse solo in cerca di un copione dalla lacrima facile con cui ripetere il colpo de La ricerca della felicità.
Spiace, se non altro, che questo Collateral Beauty non sia arrivato in sala prima della fine del 2016.
Avrebbe semplificato le cose a chi si trovava a stilare una classifica dei peggiori film dell’anno mentre, uscendo invece a 2017 appena iniziato, uno rischia di dimenticarsene.

Voto 3

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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