MIA Market 2019: la quinta edizione sarà dal 16 al 20 ottobre
— 2 giugno 2019Torna l’appuntamento per i leader dell’industria audiovisiva.
ANDREA BOSCO
5) Il cinema italiano della “Rinascita” (Perfetti sconosciuti, Lo chiamavano Jeeg Robot, Veloce come il vento, Mine)
A parole, quattro casi di produzione alternativa virtuosa presa a modello dalle cassandre e dalle prefiche di casa nostra; nei fatti, quattro scimmiottamenti pedestri, derivativi e abbondantemente fuori tempo massimo dei canoni dell’intrattenimento industriale più rimasticato, innocui giocattoloni che guardano (dal basso) alla chimera statunitense e che rimarcano, invece, l’inguaribile provincialismo, la piccolezza e il disorientamento del cinema popolare del Belpaese.
4) The Danish Girl – Tom Hooper
Avrà pure rivelato al mondo il talento di Alicia Vikander, ma, per il resto, The Danish Girl è un film sbagliato sotto ogni punto di vista, un’operina calligrafica, superficiale e pesantemente leziosa incapace di comunicare quella confusione identitaria e gerarchica dei sessi che avrebbe reso il progetto qualcosa di più di un semplice, agiografico omaggio alla causa LGBT; non un accurato studio del femminino, quanto un rassicurante mèlo guidato da un intreccio sonnacchioso, pavido e inutilmente declamatorio.
3) Jennifer Lawrence (Joy, X-Men: Apocalisse, Passengers)
Non sono passati dieci anni da The Burning Plain, ma tanto è bastato per trasformare Jennifer Lawrence nell’emblema del conformismo hollywoodiano più vieto: da folgorante promessa della scena indipendente ad allineata fatina del glamour, la divetta del Kentucky infila tre madornali errori di carriera consecutivi e appare oggi, incastrata a tutti i costi in ruoli che, per età e maturità, non le spettano, l’esempio di una generazione spremuta all’osso e prematuramente sfiorita.
2) Equals – Drake Doremus
Nefando prodottino da multisala transitato inspiegabilmente per il Lido e concepito da (anzi, assai più probabilmente, per) un pubblico totalmente a digiuno di cinema e di letteratura distopica: nelle intenzioni, la declinazione prettamente allegorica dei connotati ultrasentimentali dell’universo giovanilistico-ipersensibile del suo autore, nei risultati il remake hipster-sfigato de L’uomo che fuggì dal futuro, un’antologia inarrestabile di ridicolo involontario spinto oltre il livello di guardia.
1) Il cinema italiano di fiction a Venezia73 (Piuma, L’estate addosso, Tommaso, Questi giorni, Indivisibili, La ragazza del mondo)
In una scala di valori che va progressivamente dall’impresentabile (la prima metà) all’insignificante (la seconda), una carrellata inconsapevolmente sintomatica sullo stato di salute del nostro cinema medio: ombelicale e ripiegato su se stesso, leggero e disinvolto in maniera forzosa e mai spontanea, sorretto da fondamenta fragilissime e mai all’altezza delle proprie ambizioni.
Una pessima figura di portata internazionale da cui urge immediatamente risollevarsi.
CAROLINA TOCCI
5 Joy – David O.Russell
Un David O.Russell ai minimi storici, dopo l’exploit de Il lato positivo e il godibile American Hustle. Già dal soggetto non c’era molto da sperare: la storia dell’imprenditrice americana Joy Mangano (quella che si è inventata il mocio), qui interpretata da Jennifer Lawrence, viene affrontata in modo grottesco ed eccessivamente colorito, tanto che il film sembra essere una gigantesca iperbole che si bea del suo essere tale. Punto.
4 Nonno scatenato – Dan Mazer
Da molti considerato il disastro ultimo di una carriera ormai al capolinea, il film diretto da Dan Mazer getta definitivamente Robert De Niro nell’abisso della volgarità triviale e del tutto fine a se stessa. Ci fosse stato chiunque altro al suo posto, Nonno scatenato sarebbe stata solo una brutta commedia demenziale on the road, così invece fa proprio male agli occhi. Zac Efron non pervenuto.
3 Una vita da gatto – Barry Sonnenfeld
Per fortuna ha girato solo poche scene, ma sono comunque troppe. Kevin Spacey che fa il gatto (tra l’altro un gatto che emette un miagolio assillante e fastidioso) è davvero troppo. Come se non bastasse, nella sdolcinatissima commedia di Barry Sonnenfeld sono riusciti a infilare nel cast anche Christopher Walken, non si sa bene come. Un’ora e mezza straziante e priva di qualunque dettaglio possa essere definito vagamente interessante. Roba da far odiare i gatti persino al più incallito dei gattari.
2 Non c’è più religione – Luca Miniero
Non c’è davvero più religione. Luca Miniero (Benvenuti al Nord e al Sud) confeziona un film noioso e sconnesso. Un’accozzaglia di elementi socio-culturali amalgamati male e affrontati peggio. Retorica a gogò per una storia che fatica a trovare una propria identità narrativa, non certo aiutata da una regia che definire televisiva è già un complimento. Bisio Finocchiaro e Gassmann? Nessuno di loro salva il film dal disastro.
1 Tommaso – Kim Rossi Stuart
Kim Rossi Stuart scrive, dirige e interpreta se stesso, in un’opera compiaciutissima e presuntuosa. Il suo approccio psicanalitico al cinema è di quelli disturbati e disturbanti, soprattutto se accompagnato a uno script tanto sconclusionato e autoreferenziale che davvero lascia sbigottiti. Tommaso è uno di quei film in cui nulla si salva e tutto ne esce distrutto. Soprattutto il Cinema.
FABIO GIUSTI
5. Batman V Superman: Dawn of Justice – Zack Snyder
Che il regista di 300 non fosse un campioncino di sfumature e raffinatezza estetica era cosa già nota ma qui, alla seriosità degli intenti, giustappone un’estetica tamarra che al confronto Paul Verhoeven sembra Fellini. E, soprattutto, lavora male sia sul versante Gotham, impoverendo Batman dello spessore costruito da Nolan negli ultimi dieci anni, che su quello Metropolis, riuscendo a fare anche peggio del già a suo tempo criticatissimo Man of Steel.
4. La corrispondenza – Giuseppe Tornatore
A metà strada tra un bigliettino dei Baci Perugina e un Harmony di quart’ordine.
Prima o poi qualcuno dovrà pur rendersi conto che Tornatore è forse il più grande bluff del cinema italiano: autore di un unico vero capolavoro (Una pura formalità) all’epoca bollato frettolosamente come un errore di percorso un po’ da tutti.
Forse anche dallo stesso Tornatore.
3. Fuga da Reuma Park – Aldo, Giovanni e Giacomo & Morgan Bertacca
Quello che lo stesso trio definisce come il loro film più surreale non è altro che una vetrina impolverata di articoli di terza mano. L’inconsapevole canto del cigno di tre attori/autori che quel poco che avevano da dire l’hanno ormai già detto in tutte le salse. Il concetto è quello del Greatest Hits, raccolte di successi di cantanti ormai bolliti che, in occasione delle feste natalizie, cercano di battere cassa sull’onda dei ricordi.
Il rispetto per il pubblico, inutile a dirsi, è prossimo allo zero.
2. La verità sta in cielo – Roberto Faenza
Faenza non solo non aggiunge nulla al triste caso di cronaca che non sia già stato ripetuto più e più volte negli ultimi trent’anni, ma si rivela carente anche nell’unica cosa che poteva (anzi doveva) fare in assenza di risvolti inediti, ossia ricostruire in modo quanto più verosimile l’inquietante vaso di Pandora colmo di intrecci di potere che quello che inizialmente apparve un semplice rapimento andò poi a scoperchiare.
1. Ustica – Renzo Martinelli
“L’orrore…l’orrore.” (cit.)
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