Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Dodici misteriose e gigantesche astronavi appaiono in altrettanti luoghi del pianeta Terra. Nessuno conosce il motivo per cui sono arrivate. La linguista Louise Banks (Amy Adams) viene selezionata per far parte di una squadra speciale creata al fine di analizzare le specie aliene nel sito degli Stati Uniti. Fanno parte del team anche il fisico teorico Ian Donnelly (Jeremy Renner) e un colonnello dell’esercito americano di nome Weber (Forest Whitaker). Louise, aiutata da Ian, dovrà provare a comunicare con gli alieni, cercando di farlo attraverso lo studio della loro lingua.
Dopo l’apprezzatissimo Sicario e mentre l’attesa per il suo Blade Runner 2049 si fa sempre più trepidante, il canadese Denis Villeneuve ci regala un’altra perla con Arrival, complesso e poliedrico sci-fi dall’approccio intimista e spirituale. È fantascienza contaminata, che si mescola e si arricchisce di altri generi (thriller, mélo), con altri linguaggi. Se la science fiction di oggi, come ci ha insegnato Nolan con Interstellar, è introspezione e ricerca, l’arrivo dell’alieno diventa un pretesto per scavare nei meandri della nostra coscienza.
Presentato in concorso a Venezia73 e tratto dal racconto Storia della tua vita di Ted Chiang, Arrival è un film ecumenico e intriso di misticismo, una storia palindroma che invita chi guarda a scomporre e poi ricomporre al rovescio quello che ha visto, lasciandolo immutato ma restituendogli al tempo stesso un senso nuovo.
Film sulla comunicazione e sul linguaggio, sul dialogo da ricercare ad ogni costo, Arrival ci propone una soluzione di contatto tra specie che è visiva e non verbale. La forza, la chiave di svolta, appartiene dunque alle immagini, quelle che gli alieni eptapodi utilizzano per parlare con Louise e quelle, ricche di suggestioni, delle navi aliene che galleggiano a pochi metri da terra che evocano dipinti magrittiani. Immagini impalpabili, oniriche, della stessa materia di cui sembra fatto il personaggio di una Amy Adams particolarmente ispirata, che racconta la sua storia come un flusso ininterrotto di coscienza in cui fine e inizio tendono a confondersi.
Opera coraggiosa e innovativa, Arrival si serve degli stilemi dello sci-fi e li omaggia (c’è un po’ di Malick, un po’ di Gravity, di Interstellar e di Spielberg, di Lynch, di Odissea nello spazio e del Tarkowski di Solaris), pur rimanendo autenticamente originale. Se da un lato l’arrivo di queste gigantesche navi aliene e la conseguente ondata di panico che l’evento diffonde, rievoca scenari attuali, dall’altra Villeneuve è attentissimo a mantenere tutto su un piano astratto e metafisico (la nebbia, le inquadrature dall’alto sul campo base) attraverso suoni e immagini di grande suggestione. Ci imprigiona la mente in uno spettacolo di inafferrabile bellezza, denso di misteri e in cui tecnica ed emotività sanciscono il passaggio tra scienza e spiritualità.
E il cinema di Roland Emmerich, improvvisamente, appare solo un ricordo sbiadito.
Voto 7,5
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