Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
È una curiosa circostanza quella che vede il ritorno in sala, quasi in contemporanea, di due autori come Tim Burton e M. Night Shyamalan.
Due che, oltre ad avere in comune una certa fascinazione per la diversità intesa sia come fonte di emarginazione sociale che come vero e proprio dono, si ritrovano a condividere anche l’opacità delle loro più recenti prove artistiche.
Sia Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali che questo Split sono in fondo tentativi – entrambi mediamente riusciti – di superare una impasse creativa (e commerciale) che ha coinciso con un allontanamento dei loro autori dalle coordinate che ne avevano reso inconfondibili i rispettivi stili proprio attraverso l’atteso ritorno a quelle stesse coordinate.
Se quindi Burton si è riappropriato del mood dark e goticheggiante dei suoi momenti migliori pur senza accostarvisi nei risultati, Shyamalan riscopre il gusto per quello che, fino a un certo punto, è stato considerato il suo marchio di fabbrica: lo switch narrativo posto a suggello dell’opera che di fatto ne inverte il senso e che ha reso film come Il sesto senso e The Village dei classici istantanei. Nel caso di quest’ultimo è importante sottolineare come il processo di rinascita fosse già iniziato con il precedente The Visit e sia sostanzialmente legato a due fondamentali concause.
La prima è senz’altro un repentino quanto radicale abbassamento di profilo che, allontanando il regista dall’ipertrofica grandeur di megaproduzioni (fallimentari) come L’ultimo dominatore dell’aria e After Earth, gli ha evidentemente permesso di tornare a ragionare su storie più personali.
La seconda circostanza – forse più importante in quanto è quella che ha favorito la prima – è invece l’incontro con Jason Blum, deus ex machina produttivo di molto dell’horror migliore degli ultimi anni, da Insidious a Sinister.
E se in The Visit è toccato a Shyamalan adattarsi in qualche modo all’immaginario perturbante di riferimento della Blumhouse attraverso il ricorso al found footage, per Split avviene il processo esattamente inverso cosicché l’autore indo-americano è libero di tornare idealmente a quell’Unbreakable di cui, per sua stessa ammissione, quest’ultimo film rappresenta una sorta di spin-off mancato.
Sì, perché pare che il personaggio che un disturbo dissociativo porta a vivere 23 esistenze differenti fosse già presente in un primo script del successore de Il sesto senso per poi essere messo in stand-by in attesa di un progetto che lo vedesse protagonista assoluto. Split è infatti uno di quei film che ruotano tutti attorno alla straordinarietà (da intendersi nell’accezione di “extra ordinario”) dell’oggetto che descrive. Il risultato, paradossalmente, è l’opera più lineare di M. Night Shyamalan, oltre che la più cupa.
Un thriller che si finge psicologico ma abbandona fin da subito la sua componente “patologica” per approcciare le diverse personalità del protagonista in modo più pratico, quasi si trattasse davvero di villain differenti.
In questo risulta fondamentale la poliedrica performance di James McAvoy che, lavorando di sottrazione, scongiura le derive più grottesche che un personaggio del genere facilmente potrebbe avere e connota in maniera indelebile un film che funziona senza però rischiare granché.
Se si esclude infatti la raffinatezza del one man show di McAvoy (per apprezzare al meglio il lavoro dell’attore sui differenti toni di voce si consiglia di vedere il film in lingua originale) Split è un’opera che, sebbene sia incorniciata da un incipit di assoluto livello ansiogeno e da un epilogo straordinario nel suo cortocircuitare buona parte del cinema di Shyamalan in un’unica scena, si adagia spesso su standard di relativa convenzionalità.
Piace senz’altro per come racconta due lotte che si svolgono in parallelo: quella delle ragazze prigioniere per la libertà e quella che, nella testa del loro carceriere, vede battersi tra loro le sue diverse personalità, ognuna in cerca del sopravvento sulle altre.
Piace un po’ meno semmai il modo in cui l’accumulo di tutti questi elementi non trova alla fine uno sbocco narrativo adeguato. Non una svolta epocale insomma, né per il regista né per le sorti del thriller moderno, ma un notevole passo in avanti nella ripresa di una carriera che sembrava ormai in caduta libera.
Proprio come Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali per Tim Burton.
Voto 6,5
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