Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Nel 2014 Sidney Sibilia sbarcò nelle nostre sale un po’ come un alieno, raccontando con Smetto quando voglio il problema della disoccupazione post lauream senza però alcuna volontà di piangersi addosso ma, anzi, ibridandolo con il filtro – invero assai poco utilizzato in patria – del genere. L’intrinseca qualità dello script, unita all’affiatamento del cast e ad un progressivo passaparola di feedback positivi da parte del pubblico, ne fecero in breve tempo un piccolo e fortunato caso cinematografico, paragonabile, per molti versi, a quello più recente di Lo chiamavano Jeeg Robot.
Destava quindi parecchia curiosità la decisione del giovane autore di girarne due sequel in parallelo (l’altro, Smetto quando voglio – Ad honorem, uscirà il prossimo anno) secondo dinamiche produttive ormai ampiamente consolidate oltreoceano ma inedite per i più pigri e soprattutto cauti standard nostrani.
Alla curiosità si aggiungeva poi il timore che un’operazione di franchising potesse di fatto annacquare quanto di buono era presente e già perfettamente sviluppato nel primo film.
Rischio scongiurato sin dai primi minuti di questo Smetto quando voglio – Masterclass in cui Sibilia è particolarmente abile a creare un continuum sia narrativo che estetico, ambientandone la prima scena nello stesso parlatorio del carcere in cui si chiudeva la sua opera prima.
Dopo essere finito in prigione, infatti, Pietro Zinni (Edoardo Leo) riceve l’offerta di collaborare in incognito con la polizia per bloccare il sempre più florido mercato delle smart drugs. A patto che, una volta interrotta la produzione di trenta droghe non ancora dichiarate illegali, la sua fedina penale torni ad essere pulita e lui sia libero di riprendere la sua vita insieme a Giulia (Valeria Solarino).
Da lì a rimettere insieme la “banda dei ricercatori” è un attimo, con l’aggiunta strategica di alcuni nuovi elementi reclutati tra le nutrite fila dei cosiddetti “cervelli in fuga”. Se da un lato è quindi vero che ‘squadra che vince non si cambia’, la saga di Smetto quando voglio continua a guardare a Hollywood – nello specifico al franchise di Ocean’s Eleven – anche per quanto riguarda l’arricchimento di un cast già ben oliato, con le piacevoli new entry di Giampaolo Morelli, Greta Scarano e Luigi Lo Cascio.
Il pubblico di riferimento resta il medesimo, quello che alla risata facile preferisce l’arguzia e il gioco di parole magari meno immediato, ma qui la sensazione è che la posta venga alzata in modo considerevole.
Laddove infatti Smetto quando voglio non si spingeva oltre un gioco, a tratti molto riuscito, di rimandi cinefili che si innervavano su uno schema di commedia all’italiana tutto sommato classico e memore dell’opus magnum monicelliano I soliti ignoti, in Masterclass il gioco si fa più duro (giusto per citare John Landis, altro nume tutelare di Sibilia) e si chiede allo spettatore di azzerare i punti di riferimento pregressi, dimenticare Breaking Bad e fruire del film non come di un semplice wannabe bensì di un prodotto che sta in piedi da solo, con una propria dignità e un’identità ben definita.
Meno crossover di azione e comicità quindi, con il primo elemento che prende il sopravvento sul fine ludico, perseguito comunque e raggiunto in pieno, sebbene in misura minore rispetto al passato, con un’unica eccezione che coincide con il climax del film: la lunghissima scena dell’assalto al treno, in cui ritmi action e un fuoco di fila di esilaranti battute trovano una loro sintesi perfetta.
Ciò che piace di Sidney Sibilia e della sua epopea piena di antieroi così male in arnese è la capacità di costruire un universo semantico in cui lo straordinario irrompe nel reale senza però renderlo mai né del tutto inverosimile né tanto meno grottesco.
Merito senza dubbio di una leggerezza di fondo che immaginiamo essere solo un’eco del divertimento provato da regista e attori sul set.
Voto 7
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