Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Da una parte i ritmi sonnacchiosi della provincia, le piccole soddisfazioni della routine e il sussurro discreto della poesia, dall’altra la sregolatezza della metropoli, le derive della celebrità e l’urlo fragoroso del rock: non potrebbe esserci un’antitesi più netta, apparentemente, fra le due opere presentate da Jim Jarmusch all’ultimo Festival di Cannes, evoluzioni contrapposte e parallele di quel cinema dei margini del quale il film-maker di Cuyahoga Falls, dal debutto sgraziato di Permanent Vacation alla sublimazione di Solo gli amanti sopravvivono, si è imposto fra i più autentici e originali cantori nel panorama statunitense a cavallo fra i due secoli.
Facendo più attenzione, tuttavia, è facile accorgersi di quanto le discrepanze si limitino principalmente al piano della forma – finzionale in un caso, documentaristica nell’altro – e di quanto in verità lo sguardo sull’abitudinaria settimana di lavoro e di svago del laconico autista del New Jersey e quello sulla fulminante carriera degli Stooges si riveli fondamentalmente lo stesso: esattamente come Paterson, infatti, Gimme Danger è una riflessione sul processo creativo, sull’incomunicabilità dell’artista e ancor più sul riverbero del passato nella crisi del contemporaneo, un tempo che fu da rivedere allo stato attuale delle cose in tutte le sue (anche contraddittorie) sfaccettature e nella sua finitezza.
Per raccontare i sette, velocissimi anni di vita della band capitanata dall’amico Iggy Pop, Jarmusch adotta consapevolmente l’atteggiamento acritico dell’ammiratore e percorre la strada del tributo puro e incondizionato, lasciando che a parlare, attraverso interviste ex novo e tanto materiale d’archivio, siano esclusivamente gli artefici di quella rivoluzione sonica che sconvolse il Midwest – e in particolare la scena storicamente operaia e proletaria di Detroit – nel pieno dell’era della contestazione, rimarcandone non solo la capacità di reinterpretarne apoliticamente il fermento, ma anche la sua natura precorritrice, in netto anticipo sulle mode che avrebbero contraddistinto le decadi successive, dal punk in poi.
Niente di nuovo, insomma, per chi, a quasi cinquant’anni dalla pubblicazione, continua a considerare l’LP eponimo, Fun House e Raw Power alcune fra le testimonianze imprescindibili della realtà discografica a metà fra i sixties e i seventies e per chi è già familiare con la galassia musicale a loro circostante, a cominciare dall’influenza determinante degli MC5, veri e propri fratelli maggiori che garantirono agli Stooges i primi ingaggi, al ruolo caratterizzante degli anfitrioni di turno come John Cale (ex Velvet Underground), che produsse l’esordio, David Bowie, che patrocinò l’album subito precedente allo scioglimento, e Mike Watt (ex Minutemen), che favorì il clamoroso ritorno sulle scene del complesso a inizio millennio ed entrò in formazione al basso.
Una cronistoria ligia ed essenziale, quindi, che il breve periodo di attività in studio e sul palco rende ulteriormente particolareggiata e compendiaria, ma che pare non avere un effettivo pubblico di riferimento cui rivolgersi: troppo poco concreto e avvincente per i neofiti, vista la tendenza – fatta eccezione per il lungo excursus dedicato alla magnifica anomalia mantrica di We Will Fall – a descrivere e ad evocare le singole canzoni piuttosto che farle ascoltare (e riducendone, pertanto, l’impatto), troppo scontato e disciplinato per gli aficionados, che dovranno accontentarsi di
ripercorrere senza sorprese gli eventi salienti di una biografia che conoscono già a menadito.
A difettare è soprattutto il supporto visivo scelto per accompagnare la narrazione, composto in gran parte da generica documentazione di repertorio, grossolani inserti animati e libere associazioni, pescate perlopiù nel calderone televisivo, probabilmente per ovviare alla carenza di filmati d’epoca capaci di inquadrare il gruppo tanto nella sfera privata quanto nell’ambito concertistico; la confezione, poi, tanto levigata e fredda da far venire alla mente un qualsiasi special di VH1 (distribuisce Amazon, in fondo), rende poca giustizia a un organico che, seppur scioltosi in via definitiva e alle porte dell’età pensionabile, aveva fatto della brutalità e dell’abiezione la propria bandiera.
Tutto il contrario, per dire dello sregolato zibaldone di memorie, confessioni, souvenir, frammenti live e sciocchezze assortite di Year of the Horse, con cui Jarmusch rese alla perfezione il caos “suonato ad alto volume per essere riprodotto ad alto volume” che costituiva la cifra stilistica e l’anima di Neil Young e dei suoi Crazy Horse, una prospettiva che ieri si infilava nei pullman e scendeva nei parterre e che oggi si sistema comodamente in salotto a fare i conti con ciò che è rimasto di allora.
Ed è forse in questo aspetto che Gimme Danger si riscatta e va in gloria, nel ricordo commosso di quel nucleo originario fattosi di decennio in decennio sempre più povero, dal bassista John Alexander, estromesso dalla line-up poco dopo l’uscita di Fun House e scomparso nel 1975 dopo anni di alcolismo, ai fratelli Ron e Scott Asheton, rispettivamente alle sei corde e dietro le pelli, che invece vissero abbastanza da partecipare alla riunificazione della band, a un quinquennale tour mondiale a partire dal 2003 e a una manciata di nuove registrazioni (su cui, per pietà, Jarmusch preferisce sorvolare), fino alla morte del primo nel 2009 e del secondo nel 2014, seguiti a ruota dal sassofonista Steve Mackay. Sono loro, nei loro interventi “a distanza”, e non il frontman, un Iggy Pop visibilmente commosso e dimesso – unico sopravvissuto insieme al nuovo chitarrista James Williamson -, a rappresentare il fulcro narrativo ed emotivo del progetto, a trasformare ciò che sembrava soltanto un’iniziativa da fan in una commemorazione nostalgica che prende atto della fine di un’era.
È perciò in quel passaggio dalla celebrazione al requiem e in quel funerale collettivo che Gimme Danger trova il proprio compimento e riesce a catturare, rimediando alle innegabili incertezze formali, lo spirito irredento non solo degli Stooges (“i più grandi di tutti i tempi”, citando le parole di Jarmusch), ma anche di un’intera generazione persasi più volte per strada e arrivata alle soglie della vecchiaia ferita e acciaccata, ma ancora viva, combattiva e, come afferma Iggy in chiusura, desiderosa di non appartenere a nessuno, se non a se stessa.
Voto 6.5
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