Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Volendo dare un seguito al suo Trainspotting (è bello immaginare che nessuno lo abbia costretto a farlo) Danny Boyle mette subito in chiaro le cose. T2 Trainspotting non è in alcun modo il classico sequel di un film che, a torto o a ragione, ha segnato un’epoca. Perché le avventure folli e sfrenate di Renton (Ewan McGregor), Sick Boy (Jonny Lee Miller), Spud (Ewen Bremner) e Begbie (Robert Carlyle), così cristallizzate nel tempo e nel luogo di una British Renaissance che nel 1996 volgeva già al termine e di cui, per molti versi, Trainspotting rappresentava una possibile fine, un sequel in senso stretto non può averlo.
Se c’è infatti un film il cui senso è stato amplificato dal fattore “tempo” fino a trascenderne l’oggettivo valore artistico, è proprio Trainspotting. Questa è dunque la recensione di un sequel che, essendo impossibile, non esiste. Esiste invece che, a più di vent’anni dalla rocambolesca fuga di Mark Renton da Edimburgo, Boyle riallacci i rapporti con il suo attore feticcio (pare che McGregor abbia metabolizzato solo di recente il fatto che, ai tempi di The Beach, il regista gli preferì Leonardo Di Caprio per il ruolo di protagonista) e lo riporti lì dove tutto ebbe inizio. L’intuizione geniale è in primis nella volontà di non costruire una storia che ricordi le gesta del primo film, né traducendo in immagini quell Porno con cui nel 2002 Irvine Welsh cedette alla tentazione del sequel letterario e che qui funge solo da punto di partenza ispirativo né tanto meno con un plot inedito.
Per cui non aspettatevi l’effetto shock di aghi sporchi spinti in vena con la forza o neonati vittime della disattenzione paterna.
Anzi, in un primo momento si avverte forte il pudore nell’accostarsi al materiale originale, quasi si avesse paura di guastarlo o realizzare che, a distanza di più di vent’anni, l’effetto prodotto non sia più lo stesso.
Il medesimo timore che tradisce Renton nel poggiare la puntina sul vecchio vinile di Lust for Life per poi interromperne l’ascolto subito dopo il primo colpo di batteria.
Boyle lascia quindi che i suoi vecchi amici si ritrovino e poi, tra una pinta di birra e un tiro di coca, lascia partire le immagini di Trainspotting e, attraverso un confronto impietoso tra i tossici di ieri e i falliti che sono diventati oggi, costruisce uno dei più bei saggi sulla nostalgia che si siano mai visti al cinema.
C’è Simon “Sick Boy” che organizza squallidi ricatti sessuali, “Begbie” che è appena evaso dopo vent’anni di galera e non vede l’ora di avere tra le mani Mark Renton per fargliela pagare e poi c’è Daniel “Spud”, il più indifeso della compagnia che, infatti, appena uscito di galera ha ripreso quasi subito a farsi perché “cosa altro può fare un tossico nella vita se non bucarsi?”.
E la seconda intuizione di Danny Boyle e di John Hodge (sceneggiatore di entrambi i film) riguarda proprio quest’ultimo personaggio che, spronato da una ragazza incuriosita dagli aneddoti riguardanti i suoi amici a metterli per iscritto, inizia a buttare giù un Trainspotting tutto suo diventando, di fatto, un narratore dall’interno di cose che, in buona parte, abbiamo già visto.
Dal canto suo Danny Boyle si diverte a rigirare (con una padronanza della macchina da presa impressionante) alcune delle sequenze più iconiche del suo film più iconico – compreso il ghigno beffardo sul volto di Renton, mentre si rialza dopo essere stato investito da un’auto e un bagno pubblico molto simile a quello in cui, durante un trip tossico, immaginava di immergersi sulle note di Born Slippy – e realizza un capolavoro che, insieme allo straordinario e sottovalutato Steve Jobs, va a comporre la sua personalissima Ricerca del tempo perduto
Poi, certo, ci sarebbe da dire di come il privato finisca per confluire irrimediabilmente in un sociale che non ha più speranze da offrire alle leve più giovani, figurarsi a quattro balordi di mezza età marchiati a fuoco dall’esperienza dell’eroina.
O di come lo spaesamento provato da Ewan McGregor/Renton di fronte alla carta da parati della cameretta di quando era piccolo sia lo sgomento di chiunque, tornando a casa dopo anni passati fuori, realizzi come la vita spesso somigli a un circolo che riporta sempre al punto di partenza.
Ritratto impietoso di una generazione che non riesce a smettere di chiedersi dove tutto abbia cominciato ad andare male, T2 Trainspotting probabilmente deluderà le aspettative dei molti che ci vedranno dentro solo la cenere dei fuochi d’artificio a cui speravano di assistere.
Se il primo Trainspotting rappresentava infatti l’Inferno, si può dire che questo sia il Purgatorio.
E l’unica cosa che rende tollerabile il Purgatorio è l’idea che, da qualche parte, possa esistere un Paradiso.
Solo che su questo punto Danny Boyle è piuttosto chiaro: fuori da quella cameretta non c’è nessun Paradiso.
Per cui tanto vale rimettere su il vecchio Iggy Pop e iniziare a ballare.
Voto 8
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
Mark, Sick Boy, Begbie e Spud in una parabola densa di nostalgia, alla ricerca del tempo che fu.
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