Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
A tre anni dall’esordio alla regia de La mossa del pinguino, Claudio Amendola non solo sembra averci preso gusto, ma deve aver raggiunto anche la necessaria sicurezza nei propri mezzi per giocarsi la rischiosa (per quanto più affine alle sue corde interpretative) carta del genere.
Perché Il permesso – 48 ore fuori è un noir a tutti gli effetti, con il soggetto firmato da Giancarlo De Cataldo a fungere, in tal senso, quasi da expertise. E proprio dalle regole del noir classico che Amendola pesca uno degli escamotage narrativi più efficaci e al contempo abusati, ossia il fattore tempo.
A Luigi (Claudio Amendola), Donato (Luca Argentero), Angelo (Giacomo Ferrara) e Rossana (Valentina Bellè) sono state infatti concesse 48 ore di permesso fuori dal carcere e la ristretta forbice temporale a disposizione dei suoi personaggi gli permette infatti di palesarne la natura criminale senza troppi preamboli, rispettando la secchezza da cui un racconto di questo tipo non può prescindere, anche in termini di minutaggio complessivo.
Per motivi diversi i quattro si trovano a scontare un debito con la giustizia e, adesso che sono fuori, devono decidere in che modo spendere il poco tempo a disposizione.
Chi vendicandosi, chi cercando redenzione e chi semplicemente un po’ d’amore, una volta usciti ognuno di loro dovrà fare i conti con un mondo che è cambiato mentre erano dentro.
Chi a questo punto si aspettasse qualcosa di simile all’epica criminale riportata di recente in auge da Stefano Sollima – complice lo stesso Amendola – con Suburra, potrebbe però rimanere deluso da una narrazione dal respiro assai meno ampio, che non ambisce cioè a descrivere un universo semantico in cui cronaca e letteratura diventino un tutt’uno, ma si limita piuttosto a raccontare una storia, anzi quattro.
Le storie di quattro loser che si incrociano per un attimo davanti al cancello di un penitenziario, per poi prendere direzioni diverse, tutte accomunate dalla volontà di sfuggire ai propri mostri.
Il mostro più insidioso è sempre l’amore e, come ci ha spiegato Paolo Sorrentino anni fa, le sue conseguenze.
Che sia quello carnale per una donna che non si vede da anni, oppure quello verso la famiglia, che spinge un vecchio gangster ormai stanco a rimettersi in gioco fino ad immolarsi pur di tenere moglie e figlio fuori dai guai, l’amore di fatto irrompe in un ordinario di cui, sebbene ruoti attorno all’illegalità, se ne conoscono le regole a menadito e indirizza ogni singolo destino verso il più ineluttabile degli epiloghi.
Trattandosi di un racconto corale è ovvio che alcuni personaggi siano strutturati meglio di altri e l’Amendola attore, lavorando di sottrazione e bassissimo profilo, si ritaglia forse il ruolo migliore del lotto. Questo criminale in pensione, il cui passato emerge tra le pieghe di uno sguardo lanciato a un figlio che rischia di prendere la sua stessa cattiva strada e un litigio a tavola, è la diretta filiazione del silenzioso Samurai del succitato Suburra.
Il boxeur clandestino di Argentero al contrario, nel suo aderire troppo a certi cliché d’oltreoceano, finisce con l’essere il più stereotipato.
Pur regalando al suo Donato una caratterizzazione fisica (e muscolare) di assoluto livello, l’attore non ha le caratteristiche introspettive – né tanto meno il coté da strada – per renderlo altro da una figurina di vendicatore solitario che sa un bel po’ di già visto.
Un plauso va senza dubbio alla componente più giovane del cast: Valentina Billè e Giacomo Ferrara – quest’ultimo portatore sano di un’ingenuità coatta che sa tanto di Claudio Caligari – hanno le giuste facce e funzionano bene. .
Il livello attoriale è insomma sopra la media (ed essendo Amendola prima di tutto un attore sarebbe strano il contrario) mentre lo stesso non si può dire di una regia tendenzialmente anodina, priva di una connotazione stilistica e, in diverse scene, contraddistinta da un taglio delle inquadrature che troppo ricorda certa fiction poliziesca di area generalista.
Ciò che invece maneggia meglio è la sua Roma, rappresentata spesso attraverso scorci così anonimi da non sembrare neanche la Città Eterna.
Resta dunque il rimpianto per un’opera che, se avesse avuto il coraggio di spingere di più sul versante del pulp che la sua natura di prodotto di serie B a tratti lascia comunque balenare (nei villain di Antonino Iuorio e Ivan Franek ad esempio) e meno su quello dell’intimismo insistito, avrebbe convinto maggiormente.
Ma il Claudio Amendola regista, al contrario dei suoi quattro personaggi, è sulla strada giusta.
Voto 6
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