Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Strano film Lady Macbeth. Strano e affascinante.
Immaginate per un attimo che La fiamma del peccato – capolavoro di Billy Wilder e archetipo di tutto il noir che ruoti attorno alla figura di una femme fatale – anziché nella Los Angeles degli anni Quaranta, sia ambientato nella campagna inglese di metà Ottocento.
Immaginate pure, al posto della glaciale Barbara Stanwick, un’eroina romantica (almeno all’apparenza) presa di peso dalle pagine di un romanzo vittoriano.
Ecco, per la sua opera prima, William Oldroyd parte più o meno da questo presupposto: prendere il determinismo tipico del noir più cinico e ibridarlo con il protofemminismo di Emily Brontë. Il tutto con Shakespeare a fare da collante. L’influenza del Bardo del resto, a distanza di cinque secoli, è più o meno ovunque, figuriamoci in un film il cui titolo è per metà preso in prestito da quello di una delle sue opere più celebri.
Qui una fanciulla, vittima di una società ancora fortemente patriarcale e retrograda, trova il proprio violento riscatto proprio nella trasgressione da certi dogmi che la vorrebbero agnello sacrificale o, nel migliore dei casi, consapevole (e acquiescente) moneta di scambio.
La fanciulla in questione è la diciassettenne Katherine (Florence Pugh), “comprata” in cambio di un pezzo di terra da un ricco possidente (Christopher Fairbank) per essere poi data in moglie a suo figlio. Le prime immagini sono quadri animati di Vermeer in cui vediamo la giovane venire ripetutamente ignorata dal proprio sposo e vessata dal suocero perché gli fornisca il prima possibile un erede.
Poi, a un certo punto, qualcosa cambia radicalmente.
Afflitta dalla noia di giornate tutte troppo uguali, un giorno Katherine trova il coraggio di uscire dal sontuoso maniero che ha giocoforza eletto a proprio nido e prigione e inizia a esplorare quello che c’è fuori, compreso un rozzo stalliere verso il quale in breve tempo svilupperà una passione folle e pericolosa.
Tratto dal racconto del russo Nikolaj Leskov “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk” (tra l’altro già tradotto in immagini da Andrew Wajda nel 1962) Lady Macbeth è un’opera di gelida eleganza che, in maniera quasi impercettibile, si trasforma in furia.
Un affresco magnificamente illuminato di luce naturali (segnatevi il nome della direttrice della fotografia, la giovane australiana Ari Wegner, ché in futuro ne sentiremo parlare) e interpretato in modo magistrale da Florence Pugh, piccola Bovary dotata di sguardo penetrante e sensualità inquieta che, nell’arco di pochi fotogrammi, diventa l’indiscutibile fulcro attrattivo dell’intero film.
Stilisticamente colpisce il rigore estetico con cui Oldroyd parte da ovvie suggestioni kubrickiane (versante Barry Lindon, ovvio) per poi osare, soprattutto nella seconda parte, geometrie disegnate su un lento quanto inesorabile accumulo di tensione che non può non far pensare al miglior Haneke.
E nella contrapposizione tra la staticità pittorica delle immagini e il ribollire dei tumulti interiori si gioca il senso di un film che, se solo avesse avuto il coraggio di spingere un po’ di più il piede sull’acceleratore della violenza, avrebbe fatto faville. Oldroyd invece sceglie la strada meno rischiosa e lavora sottopelle, ma ha talento da vendere.
E, sulla scorta di un esordio del genere, non può che migliorare.
Voto 7
Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.
L’esordio cinematografico di William Oldroyd, uno dei maggiori registi del teatro inglese, è un tripudio di inquietudine e sensualità.
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