Civiltà perduta

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Non capita certo tutti i giorni – e purtroppo neanche tutti gli anni – di imbattersi in un pezzo di cinema purissimo come quello messo in atto  da James Gray in questo Civiltà perduta.
Un racconto di ossessione e imprese impossibili che finisce inevitabilmente con il coincidere con le proprie vicissitudini produttive.
Sì, perché il sesto film di Gray era già sulla carta destinato ad essere il più classico dei disastri annunciati. Una di quelle pellicole in cui le ambizioni di un autore assai poco incline al compromesso si scontrano per forza di cose con le rigide logiche commerciali degli Studios da un lato e, dall’altro, con la pigrizia dei gusti di un pubblico ormai abituato più alla coccola che non alla sfida e di cui I cancelli del cielo rappresenta solo il caso più eclatante.
Anche se, parlando di Michael Cimino, è ad un altro suo capolavoro che Gray paga pegno in una delle scene di apertura.
Il riferimento è alla caccia al cervo che, omaggiando uno degli incipit più iconici della storia del cinema – quello de Il cacciatore – funge sia da dichiarazione di intenti, per così dire, epici, sia come prima di una lunga serie di suggestioni che rimandano in modo diretto a tutti quegli autori che, prima o poi, si sono trovati a camminare su quella sottile linea d’ombra, oltrepassata la quale, l’uomo, solo di fronte all’incontaminato fascino della natura selvaggia, è costretto di fare i conti con i propri demoni.

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L’uomo in questione è il militare Percy Fawcett (Charlie Hunnam), inviato ai confini tra Brasile e Bolivia per conto della Royal Geographic Society con lo scopo di mappare un territorio fino ad allora sconosciuto alle carte geografiche: l’Amazzonia.
Qui Fawcett scopre alcuni resti di un’antica civiltà che sembrano confutare ogni teoria dell’epoca sulle sostanziali differenze tra uomini civilizzati e “selvaggi”.
Alcune difficoltà pratiche – non ultima la mancanza di cibo –  lo costringono a tornare a casa prima di aver trovato conferma alle sue ipotesi, ma l’ossessione per ignoto è un germe che da quel momento in poi lo accompagnerà per tutta la vita; un sogno interrotto solo dall’inizio della Prima Guerra Mondiale e da una moglie che, sebbene comprensiva, sopporterà sempre più a fatica le sue assenze pluriennali.
Film volutamente antico sia per impostazione visiva che per struttura narrativa, Civiltà perduta è un capolavoro fuori luogo e fuori tempo.
In primis perché non ha l’appeal di un Revenant (in altre parole Hunnam non è Di Caprio) né tanto meno la sua modernità linguistica. Semmai è più vicino all’ultimo (e infinitamente sottostimato) Scorsese di Silence nel suo descrivere l’ostinata incrollabilità di una fede – qui però declinata in forma laicissima – che si spinge fino ai confini dell’autolesionismo.  E, malgrado la giungla amazzonica possa apparire come una relativa deviazione rispetto alle abituali ambientazioni metropolitane di Gray, il fulcro semantico dell’opera è in perfetta continuità con ognuno dei suoi precedenti e magnifici film.

Si parla infatti di mondi in antitesi e di qualcuno che, volente o nolente, vi si trova giusto in mezzo, come il Joaquin Phoenix diviso tra crimine e legalità ne I padroni della notte o la Marion Cotillard tra vecchio e nuovo mondo di C’era una volta a New York.
Qui tra due fuochi c’è la razionalità di un uomo che combatte contro le ristrettezza di vedute di una borghesia vittoriana che sa di stare perdendo terreno e contro la follia di un conflitto bellico al quale si partecipa più per senso del dovere che non per una reale comprensione delle cause.
Fuori dallo schermo si consuma invece un altro conflitto: quello tra un regista nato semplicemente nel decennio sbagliato, con un’idea di cinema troppo più grande di qualsiasi sistema IMAX e un mercato che un talento del genere quasi non sa dove collocarlo.
Nello scontro, quella che poteva essere l’opera più completa di un autore in continua crescita rimane vittima di un eccessivo lavoro di taglio che, nel tentativo di scendere sotto le tre ore di durata per renderla forse più appetibile al grande pubblico, ne riduce in parte l’impatto.
Ciò che però resta intatta è un’elegia dell’esplorazione di rara potenza evocativa, in cui confluisce tutto il cinema “eroico” migliore di sempre, da John Milius a Francis Ford Coppola (tutto il film è un omaggio ad Apocalypse Now! ma il fotogramma tribale che lo apre sembra proprio preso da lì) passando per la contemplazione estetica della natura di Malick.
È un film magnifico Civiltà perduta e, come molte tra le opere più ambiziose, verrà preso sotto gamba per poi essere rivalutato con gli anni.
E io giuro che, quando arriverà quel momento, eviterò di dire cose tipo “ve l’avevo detto”.

Voto 8

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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