Dopo un decennio abbondante di opere involute e distorte dalla produzione (Dominion: Prequel to the Exorcist e Il nemico invisibile), malamente giustificati dall’alibi della bruttezza programmatica (The Canyons e Cane mangia cane) o, nel migliore dei casi, discutibili e impacciati (Adam Resurrected e The Walker), era tempo per Paul Schrader di tornare finalmente a una dimensione a lui più congeniale, a un cinema maggiormente personale e a un totale controllo artistico del prodotto finale.
First Reformed è quindi l’occasione per il cineasta di Grand Rapids per riappropriarsi della sua opera, per tornare a sorreggere il carico delle proprie ossessioni (la perdizione, l’impotenza affettiva, l’irruzione del trascendente) e per tornare a ispirarsi a quei prototipi, Bresson e Dreyer su tutti, che dagli esordi di Tuta blu e di American Gigolo avevano fortemente contrassegnato la sua poetica: questa volta, tuttavia, lo storico collaboratore di Martin Scorsese finisce per peccare per eccesso, non solo ammucchiando in maniera disomogenea situazioni e personaggi totalmente autoreferenziali (il destino di solitudine e di isolamento nell’inverno raggelante di Affliction, il sacrificio come più nobile forma di espiazione di Mishima, la battaglia individuale contro la società alla deriva di Hardcore), ma anche riproponendo pari pari quei modelli che ne erano stati la fonte.
Si diceva di Bresson, poc’anzi, e First Reformed è in tutto e per tutto la riproposizione, se non pure il rifacimento non dichiarato, del suo Diario di un curato di campagna, di cui recupera a linee neanche tanto grandi la trama – il tormento di un irrequieto macilento parroco di provincia (Ethan Hawke), vessato da una comunità avida, egoista e consapevolmente votata all’autodistruzione – calandolo nel pieno dell’epoca del riscaldamento globale e della fine delle ideologie: il risultato, però, oltre a farsi derivativo, impostato e inerte ai limiti della catatonia, è di mano davvero pesante, fra didascalismo trombone (le annotazioni sul taccuino a cui il protagonista, come il suo omologo uscito dalle pagine di Bernanos, affida i propri pensieri), passaggi a vuoto (la sottotrama ecologista, il rapporto con i membri della diocesi) e squarci visionari privi di misura, come la sequenza del Magical Mystery Tour, durante il quale il religioso si mette a levitare come un eroe tarkovskijano per poi librarsi nel kitsch, e il finale martirizzante, in cui la macchina da presa, dopo due ore di macchina fissa, volteggia vorticosamente per poi passare a nero.
Un film indubbiamente, finalmente personale, quindi, ma non per questo meno respingente, fastidioso e privo di una vera necessità.
Ancor peggio, per motivi diametralmente opposti, fa il successivo
The Shape of Water, banalissima, leziosa e manichea fiabetta nera sull’emarginazione con cui Guillermo del Toro mescola impunemente gli echi del miglior immaginario burtoniano alle smancerie del peggior Jeunet, con l’archetipo de Il mostro della laguna nera riconcepito come una disneyana Bestia di de Beaumont.
Fra un’estetica stucchevole che non teme di sguazzare nel kitsch (in primis, il numero musicale al ritmo dello standard You’ll Never Know), caratterizzazioni tanto scontate da sfiorare l’autoparodia – Michael Shannon è, come sempre, il trucido, disumano villain totalmente privo di sfumature, l’insopportabile Octavia Spencer è il garrulo comic relief di turno, Michael Stuhlbarg è ancora il timido, impacciato impiegatuccio – e un così insistito, leccato e fasullo poeticismo che non riesce mai a tradursi in autentica commozione, il film crede di giocare facile accostando il clima da Guerra Fredda pre-Era Spaziale alla deriva trumpiana di oggi per tessere il solito, stantio elogio dei dropout dell’America più ipocrita (oltre alla sguattera sudamericana e all’immigrato introverso, non potevano mancare l’eroina disabile e il suo sidekick omosessuale) e per ribadire i più confortanti luoghi comuni del caso, a partire dal vetusto ammuffito adagio che vede nell’Uomo il peggior mostro di tutti.
E se la bravissima, generosa protagonista Sally Hawkins e, ancor più, la preziosa spalla di lusso Richard Jenkins salvano il film dal disastro completo seppur alle prese con caratterizzazioni tolte di peso da Il favoloso mondo di Amelie, The Shape of Water resta comunque cinema ovvio ed elementare, che scambia il romanticismo per sentimentalismo e che fa troppo affidamento su un pubblico di “puri di cuore” e di comprovata fiducia per andare oltre la dozzinalità.
Un po’ meglio il primo concorrente asiatico della sezione principale, il libanese The Insult, un concitato legal drama che porta in tribunale la polveriera mediorientale partendo da un assunto qualsiasi, lo sgarbo commesso da un autoctono cristiano a un profugo palestinese, per arrivare a coinvolgere, lungo un’escalation di recriminazioni, vendette e imputazioni, l’intero passato prossimo del territorio.
Non si negano a Ziad Doueiri il coraggio dell’ambizione e la perizia nel mantenere serrata un’opera chiusa per metà fra le mura di un’aula di giustizia, ma si sente fortemente la mancanza di quella capacità di sollevare domande complesse confidando nella sensibilità e nell’intelligenza dello spettatore, preferendo ricorrere a risposte facili date da una gestione squilibrata dell’intreccio (ci sono davvero dubbi su chi, fra le due parti in causa, abbia ragione?), a un disinvolto benaltrismo, con il processo che si imbroglia e che si intorbida quanto più si risale alle origini del confitto etnico, e a una ventata retorica che cozza con la delicatezza del tema.
Come per il precedente The Attack, tutto si ferma sul piano della nobiltà di intenti e sulle risoluzioni più lampanti e, sebbene il cast funzioni a meraviglia – con una menzione speciale per l’ottimo
Camille Salameh, che interpreta il navigato avvocato dell’accusa – l’impressione è sia al servizio di un film a (chiare) tesi che assomiglia a una specie di Farhadi dei poveri.
Leave a reply