Dopo una felice sortita in Orizzonti con lo spietato gioco al massacro di Undir trénu, faida familiare di irresistibile cattiveria calata nella raggelata media borghesia islandese, è il turno del primo della prima opera di non-fiction della sezione principale: il patchwork multietnico dell’artista concettuale cinese Ai Weiwei, Human Flow, si propone di fotografare enciclopedicamente l’emergenza umanitaria delle grandi migrazioni internazionali del decennio in corso, saltando di situazione in situazione senza soluzione di continuità col proposito di ribadire quell’elemento umano che la desensibilizzazione mediatica ha progressivamente svuotato di ogni elemento umano riducendo la tragedia a pura statistica.
Nella resa dell’attivista pechinese, però, così preoccupata di mettere in risalto il proprio fine solidale, viene a mancare anche la più semplice idea di cinema che non sia una mera enumerazione di statistiche affiancata da un’attitudine estetizzante totalmente fuori luogo, un’antologia priva di coesione e di coerenza narrativa che si traduce in un bieco turismo della miseria, nel quale il narcisismo spinto del suo autore si porta a livelli alla lunga intollerabili, dal dialogo sullo scambio dei passaporti all’intervista alla profuga ripresa di spalle che scoppia a piangere e viene da lui puntualmente consolata a favore di camera, per non parlare delle numerose occasioni in cui Ai si fotografa in compagnia come un qualunque “selfista anonimo” in cerca di visibilità.
È il lato più spregevole del cinema documentaristico, velleitario nelle sue intenzioni benefiche un tanto al chilo ed elementare nella fattura – incommentabili le citazioni poetiche che, tirando in ballo Hikmet, Kennedy, Adonis e altre personalità filantropiche assortite, si alternano agli strilloni giornalistici -, il peggior servizio artistico che si potesse fare alla più urgente catastrofe del secolo in corso.
E se Orizzonti prosegue senza particolari sussulti con l’australiano West of Sunshine, sorta di variazione in sedicesimo de Il giovedì di Risi ricontestualizzata al disagio della periferia tossicodipendente, il Concorso trova finalmente il suo primo titolo di rilievo con Lean on Pete, con cui Andrew Haigh lascia il Regno Unito e affronta gli archetipi della tradizione rurale statunitense con la sua comprovata intelligenza emotiva e con l’usuale attenzione alla complessità dei sentimenti che avevano arricchito due lavori straordinari come Weekend e 45 anni: l’adattamento dell’omonimo romanzo di Willy Vlautin è una tenera ma tutt’altro che sdilinquita elegia dei perdenti che fa del povero ronzino che dà il titolo al film una sorta di novello asino Balthasar, incarnazione del senso di spaesamento e vittima delle meschinità che affliggono il Nuovo Continente dei nostri giorni
Un ritratto intriso di abbandono, di sconfitta e di compassione dalla grande carica emozionale che sfugge alle trappole della retorica e ai cliché del romanzo di formazione medio, nobilitato dalla performance intensissima dell’emergente Charlie Plummer, già papabile Premio Mastroianni dell’edizione, e dalla capacità, impensabile se si pensa all’intimità quasi agorafobica delle opere precedenti, di sottolineare il tormento interiore del suo protagonista con una marcata attenzione all’elemento paesaggistico che non solo conferma la purezza di sguardo di uno dei massimi cineasti britannici della sua generazione ma, allo stesso tempo, ne amplia ancor di più lo spettro tematico e la versatilità.
Dice ben poco, invece, l’innocuo, mansueto e benevolo Our Souls at Night, con cui l’indiano Ritesh Batra, dopo la transizione in terra d’Albione di The Sense of an Ending, tenta la sua personale impresa americana: se nel fortunatissimo esordio di The Lunchbox il fulcro dell’azione consisteva nell’unione fortuita di due solitudini rafforzata dalla distanza, a guidare il rapporto che si instaura fra gli sfioriti ma tutt’altro che rassegnati ottuagenari interpretati da Robert Redford e da Jane Fonda è, al contrario, la necessità di una vicinanza affettiva come riscatto a una vita di passi falsi e di rimpianti, e finché il film si lascia vampirizzare dal dall’intesa vincente fra le due vestigia della New Hollywood che fu (di nuovo insieme sullo schermo a quasi quarant’anni da Il cavaliere elettrico) e dal loro carisma, il tutto mantiene una certa grazia e un fascino, seppur quasi aprioristico, a tratti irresistibile.
Tolto questo, resta un’accozzaglia di elementi vieti e stra-abusati da commedia romantica di seconda fascia, dagli scontati alleggerimenti comici – garantiti dall’immancabile presenza sdrammatizzante del solito nipotino e del solito cagnolino che rubano la scena – ai deboli personaggi di contorno (i bozzetti di Judy Greer e di Matthias Schoenaerts, rispettivamente figlia emotivamente borderline di lui e figlio angustiato dai rimorsi di lei), senza farsi mancare gli episodi più obsoleti del dramma della terza età, come il ricovero ospedaliero e la fuitina urbana.
Certo, il tono si mantiene garbatamente leggero e si evita il rischio di sconfinare nel pruriginoso anche quando, inevitabilmente, entra in campo il tema delicato della sessualità senile, ma visti i presupposti si poteva fare davvero molto di più.
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