Venezia74 – Giorno 6

Di Andrea Barone
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Three-Billboards-Outside-Ebbing-Missouri

Suona quantomeno curioso che a portare alla 74ª Mostra di Venezia uno sguardo più autentico e meno vacuamente retorico sugli Stati Uniti del contemporaneo non siano stati, con l’ovvia eccezione della prospettiva enciclopedica di Frederick Wiseman, cineasti nati e formatisi nel Nuovo Continente, ma autori in trasferta abili a trasferire in un contesto a loro estraneo le basi della loro poetica.

Non fa eccezione l’irlandese Martin McDonagh, che sceglie di trasportare nella periferia del Midwest quel suo bagaglio di ossessioni che, dai tempi del suo passato da drammaturgo (celebratissima Trilogia delle Isole Aran in primis) fino alla sua transizione cinematografica avvenuta con il cortometraggio Six Shooter (premiato con l’Oscar nel 2006), coinvolgono i massimi sistemi del senso di colpa, della ricerca della redenzione e della centralità della misericordia.



E se dopo il promettente esordio di In Bruges la formula sembrava destinata a usurarsi dopo il pasticciaccio in chiave meta- di Sette psicopatici, con Three Billboards outside Ebbing, Missouri l’autore londinese raggiunge la piena maturità recuperando quella pienezza di scrittura, quella ricchezza tematica e quell’attenzione all’elemento umano di cui aveva dato prova nella sua produzione riservata al palcoscenico. La storia di vendetta che investe l’intera comunità della (fittizia) cittadina che dà titolo al film diventa quindi un pretesto per stendere la diagnosi di una società afflitta e ferita in tutto il suo campionario antropologico, dalle vittime ai carnefici, dai genitori ai figli, dalle autorità ai reietti, un dolente, compassionevole ritratto corale che, al contrario dello sproloquio ultra-liberal di Suburbicon, sa descrivere l’abisso di spaesamento generale dell’America dell’Era Trump senza pigri manicheismi e senza facili moralismi.

Ed è con uno script brillantissimo sospeso tra farsa e tragedia e con un complesso attoriale straordinario, capitanato da un sofferto Sam Rockwell spogliato dei suoi consueti gigionismi, da un granitico Woody Harrelson e soprattutto da una Frances McDormand che si riconferma una delle più complete e versatili interpreti della sua generazione che il film va in gloria e si candida prepotentemente a occupare un posto di rilievo nel Palmares.

Una_Famiglia

Si ripiomba immediatamente nella voragine con il secondo concorrente della delegazione italiana, il nostrano Una famiglia, con cui il catanese Sebastiano Riso, dopo il piccolo caso di Più buio di mezzanotte approda assai generosamente alla sezione principale: l’impressione generale è quella di un cinema ricattatorio, punitivo e privo del necessario distacco che si bea
spudoratamente a sguazzare nello squallore, nel degrado e nel borgatume di bassa lega, affrontando temi delicatissimi – nello specifico quello dello sfruttamento del corpo femminile – con mano insostenibilmente pesante e con un afflato enfatico che spoglia i personaggi e le situazioni di quell’autenticità che i presupposti iperrealistici necessiterebbero.

Non aiuta una direzione di attori totalmente carente, che lascia una Micaela Ramazzotti più spaesata che mai a briglia sciolta in una prestazione miserabilista e urlatissima per cui è impossibile provare ogni tipo di partecipazione, di certo non sorretta da un accumulo di episodi uno più caricato dell’altro (l’estrazione della spirale, risolta con una panoramica a 360° che grida vendetta, le frequenti liti domestiche, il miracoloso parto non assistito che è già la sequenza trash dell’edizione) e da una regia invasiva che invece di ricercare la commozione sembra quasi arrivare a pretenderla. Un autentico disastro, che ricaccia nel tinello lo stato delle cose del nostro cinema a cui la riuscita incursione internazionale aveva per un attimo dato una ventata di aria fresca.

Caniba

Dopo l’interessante, ma fondamentalmente gratuito esperimento di Caniba, con cui Lucien Castaing-TaylorVéréna Paravel approcciano a distanza estremamente ravvicinata il caso clamoroso del cannibale impunito Issei Sagawa, illustrando con dovizia di particolare le sue turbe sadomasochistiche senza pervenire a quello sfaccettato saggio sulla mostruosità cui si ambiva e indugiando invece in una prurigine a tasso di etica pressoché nulla, si arriva all’atteso ritorno di Hirokazu Kore-eda al Lido a oltre vent’anni dal fortunato esordio di Maborosi e dopo una lunga e quasi ininterrotta sequenza di successi cannensi.

Virando decisamente da quel clima di impalpabile grazia e di contagiosa gentilezza che rappresentava la parte più consistente e riconoscibile della sua cifra stilistica, l’autore di Father and Son firma il suo primo legal drama con una disquisizione molto attenta e precisa sul sistema giudiziario nipponico, interrogandosi sulle questioni etiche alla base del concetto di pena (quella capitale, in concreto) di tale complessità da farsi, di minuto in minuto, meccanica e verbosa, più attenta a rimarcare l’assurdità dell’assunto – il vacillante senso di realtà che il responsabile di un brutale omicidio manda definitivamente in corto circuito con l’inattendibilità delle sue confessioni – che a sollevare le vicende da un andamento piatto e, alla lunga, faticoso.

Un’ambizione lodevole che spinge significativamente il suo immaginario oltre la sua formula già ampiamente collaudata sempre sui binari dell’intimità, che però pecca di eccessiva densità e di didascalismo – si pensi, in positivo, all’esempio che fu il Porte aperte di Amelio – e che, anche per certe inevitabili concessioni a un linguaggio più commerciale, dà l’impressione che Kore-eda abbia voluto misurarsi con un cinema troppo al di fuori delle sue corde che, specie sotto il profilo registico, sembra non riuscire a gestire con il dovuto controllo.

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