Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
“È tutto qui” ripeteva a Björn Borg il suo storico allenatore Lennart Bergelin (Stellan Skarsgård) prima di ogni match, avvicinando il dito alla tempia del tennista. Una questione di testa, solo questo. Facile a dirsi, difficile a farsi, così come è difficile trasformare in qualcosa di più di un prodotto cinematografico dignitoso un evento sportivo arcinoto come la finale di Wimbledon del 1980. Ci ha provato il regista danese Janus Metz Pedersen (qui alle prese con il suo primo film dopo aver diretto un episodio della seconda stagione di True Detective) a trentasette anni da quell’indimenticabile big match, a portare sul grande schermo quel conflitto perfetto dopo il quale il tennis non è più stato lo stesso. Inserendosi perfettamente nel filone dei biopic a tema sportivo, Borg McEnroe racconta la storica rivalità tra lo svedese Björn Borg (Sverrir Gudnason) e l’americano John McEnroe (Shia Labeouf), il primo dotato di una proverbiale calma glaciale, il secondo noto invece per il suo temperamento impetuoso. Una contrapposizione che non si esaurisce sul campo da tennis: le personalità opposte, gli stili diversi e l’imprevedibilità dei risultati rendono il confronto ancora più serrato, fino a quel 5 luglio 1980, dove sull’erba di di Wimbledon si è giocata la partita più avvincente che la storia del tennis ricordi.
Rigore verso anarchia, il destrorso contro il mancino, il difensore contro l’attaccante, il ghiaccio svedese contro il fuoco americano, questo erano Björn Borg e John McEnroe agli occhi del pubblico nella loro rivalità epica e intramontabile paragonabile, cinematograficamente, a quella riportata recentemente alle luci della ribalta da Ron Howard in Rush, tra James Hunt e Niki Lauda. Ma mentre nella pellicola del 2013 c’era l’ottima sceneggiatura di Peter Morgan che non mirava a imitare, bensì a reinterpretare gli eventi descritti, in Borg McEnroe i fatti vengono riportati così come sono accaduti, con Metz che si limita a una rilettura sicuramente pedissequa, ma anche piuttosto ordinaria, delle vicende che hanno visto le strade dei due grandi tennisti incrociarsi. E questo un po’ dispiace perché sia lo sconosciuto Sverrir Gudnason che il più noto Shia Labeouf regalano ottime prove, così come Stellan Skarsgård.
L’aspetto più interessante di questo Borg McEnroe, va allora ricercato altrove, non tanto in quel dualismo di cui si è già scritto e detto praticamente tutto, quanto nel tentativo di veicolare il concetto secondo cui la rivalità tra i due campioni è stata talmente sentita e vissuta da portare un gioco come il tennis, fino a quel momento appartenente a una dimensione piuttosto elitaria, ad un’altra più popolare, di massa, con i suoi protagonisti mitizzati alla stregua delle rock star, costretti a ripararsi dai cacciatori di autografi in un bar in cui un caffè, se dimentichi il portafogli, devi comunque guadagnartelo. Anche se ti chiami Björn Borg.
Voto 6
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
La storica rivalità tra i due tennisti, interpretati da Sverrin Gudnason e Shia LaBeouf, nella pellicola di Janus Metz Pedersen.
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