Free Fire

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Free Fire è un film che, indipendentemente dai suoi meriti artistici, verrà ricordato come lo “stallo alla messicana” più lungo della storia del cinema.
Avete presente lo stallo alla messicana, no? Quella situazione nella quale due o più persone si tengono sotto tiro a vicenda, in maniera tale che nessuno possa attaccare nessuno senza essere attaccato a sua volta creando, per l’appunto, uno “stallo”.
Tutto il cinema di Tarantino ne è pieno – basti pensare all’iconica sequenza finale de Le iene o alla tesissima scena del pub in Bastardi senza gloria – ma anche John Woo ne ha fatto un marchio di fabbrica da The Killer a Face/Off, per non parlare poi del Sergio Leone de Il buono, il brutto, il cattivo.
In virtù della tensione spesso parossistica che contribuisce a generare, il Mexican standoff  – così si chiama in inglese – è un escamotage narrativo (e soprattutto visivo) da usarsi con parsimonia: in alter parole è destinato a durare poco in termini di puro minutaggio. In caso contrario il rischio è di annullare l’effetto che si vuole creare.
Ben Wheatley, però, non solo questo rischio decide di correrlo, ma ci gioca fino ai limiti estremi. “Del resto” – avrà pensato il regista – “se sono riuscito a tradurre in immagini un romanzo ostico come  “Il condominio” di Ballard senza fare disastri, cosa sarà mai girare uno stallo alla messicana lungo novanta minuti?”.



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Perché questo è, in buona sostanza, Free Fire. E la cosa sorprendente è che funziona benissimo.
Funziona innanzitutto perché Whitley ha l’intelligenza di affidarsi ad un altro topos senza tempo del cinema di genere: la formula dell’assedio che, a differenza dello stallo alla messicana, garantisce la tenuta lungo l’intero arco del film. Solo che il pattern narrativo basato su di un manipolo di persone tenute sotto scacco da una minaccia esterna viene qui ribaltato eliminando, di fatto, l’idea di un “fuori”. Tutto ciò che c’è da temere è infatti all’interno di un enorme capannone dove la più classica delle transazioni criminali (nello specifico alcuni membri dell’IRA cercano di acquistare degli M-16 da alcuni contrabbandieri) va a finire inevitabilmente male.
Ciò detto la bontà del risultato finale la si deve in gran parte a una scrittura finissima che abbandona fin da subito le pretese più seriose per puntare invece più sulla black comedy, in maniera non dissimile da quanto fatto, ad esempio, da Martin McDonagh in 7 psicopatici.
L’autore si diverte a manipolare gli stereotipi del cinema crime costruendo un campionario di improbabili villain ognuno dei quali è già, a suo modo, una citazione. Provate infatti a immaginare un qualsiasi personaggio tipo  di un gangster movie, dal tossico alla femme fatale passando per l’attaccabrighe e qui c’è.

Ma il valore aggiunto di Free Fire si trova senza alcun dubbio in un montaggio dal tasso diegetico tendente a infinito, che scompone e ricompone il poco spazio a disposizione con precision chirurgica, senza perdersi in chissà quali virtuosismi di regia.
A colpire è l’idea di un cinema antico, un artigianto che dimostra di conoscere a menadito Samuel Fuller pur non disdegnando, allo stesso tempo, certe soluzioni più mainstream à la Guy Ritchie. Un cinema in cui la storia viene prima dei personaggi, senza nulla togliere a un cast dal peso specifico indubbio nel quale brillano in particolare un Cillian Murphy in libera uscita da Peaky Blinders, Armie Hammer e un esilarante Sharlto Copley nei panni di un goffo gangster sudafricano. Senza dimenticare Brie Larson, unica donna (con la pistola) in un film popolato da soli uomini.
Qualora poi aveste ancora qualche dubbio sulla perfetta riuscita di un film così difficile da immaginare sulla carta, basta scorrere la lista dei credit per sciogliere ogni riserva residua. Alla voce “produttore” per la precisione, dove c’è scritto Martin Scorsese.

Voto 7

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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