Tre manifesti a Ebbing, Missouri

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Tutto ciò che viene dal Sud sembrerà grottesco a un lettore del Nord, tranne quel che è effettivamente grottesco, che invece verrà definito realistico: per la sua nuova esperienza oltreoceano dopo il ginepraio metacinematografico e autocitazionista di Sette psicopatici, Martin McDonagh deve aver tenuto sicuramente presente la lezione di quella sfortunata erede di Faulkner che fu la georgiana Flannery O’Connor, il suo sguardo ironico eppure compassionevole sulle storture congenite dell’America rurale e la sua paradossale commistione di registro comico ed elementi raccapriccianti applicata ai desideri e ai vizi di una provincia che pare quasi un regno a sé.
Una concezione del mondo assai simile a quella che traspariva non tanto dai toni più ammiccanti e disimpegnati della sua ridotta produzione per il grande schermo, quanto da quei celebrati trascorsi teatrali che, a partire dalla Trilogia di Leenane e da capolavori come The Pillowman, ne avevano rivelato lo straordinario talento e la tendenza a descrivere una collettività reietta e sfasata per cui la violenza è rimasta l’unica forma di comunicazione e di relazione possibile.



Non è quindi ai tormenti individuali e alla ghignante crudeltà di In Bruges e di Six Shooter, il fulminante cortometraggio con cui il commediografo londinese esordì nell’audiovisivo aggiudicandosi l’Oscar, che si rifà Tre manifesti a Ebbing, Missouri, bensì a una dimensione sociale ben precisa e contestualizzata, quel clima di riflusso (“ebb”, come suggerisce il nome della località fittizia che funge da sfondo) tipico del profondo Midwest che costituisce l’esempio più sintomatico della condotta interna degli Stati Uniti di ieri e di oggi, la piccola realtà quotidiana di un Paese tanto lassista coi forti quanto insofferente nei confronti dei deboli.
Nulla di particolarmente inedito, sulla carta, se non fosse per il nichilistico disincanto con cui McDonagh appiana le più rigide e manichee delle contrapposizioni (singolo vs. comunità, legalità vs. corruzione, perdono vs. vendetta) in una disperata terra di nessuno dove la distinzione fra vittime e carnefici non esiste più, dove tutti, indifferentemente, restano oppressi da un Male così inafferrabile da farsi cosmico, dove la sete di giustizia di una madre può sfociare nell’incoscienza e l’inettitudine delle istituzioni a volte è solamente la maschera della loro vulnerabilità e della loro inadeguatezza.

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Una società, insomma, in cui “un brav’uomo è difficile da trovare“, come Flannery O’Connor intitolava il proprio racconto più celebre, e non si tratta soltanto del libro che, guarda caso, il giovane agente pubblicitario Red Welby sta leggendo prima di ricevere la visita di Mildred Hayes (una scatenata Frances McDormand che, esclusa la parentesi televisiva di Olive Kitteridge, torna finalmente interprete di primo piano dopo un decennio di parti di supporto), ma è sicuramente anche il pensiero che spinge quest’ultima a denunciare con un gesto clamoroso l’inoperosità delle forze dell’ordine locali, richiamando l’attenzione dello stanco e debilitato sceriffo Willoughby (un grande Woody Harrelson ormai felicemente abbonato ai ruoli in divisa), a diversi mesi di distanza dal brutale omicidio della figlia. Per McDonagh è l’occasione per inscenare quei duelli verbali al veleno che sono da sempre il suo marchio di fabbrica – e di cui sia la Giuria della Mostra di Venezia, sia l’Hollywood Foreign Press Association si sono accorte – e per imbastire un campionario umano ricchissimo e sfaccettato, su cui si impone, ancor più dei due antitetici e complementari protagonisti, il suo personaggio più complesso a non rimanere confinato alle sue pièce, ossia l’agente Dixon di un eccezionale Sam Rockwell, erede di quei sempliciotti a metà fra la tragedia e la farsa che, dal Billy Claven de Lo storpio di Inishmaan al Mervyn di A Behanding in Spokane, rappresentano con le loro contraddizioni e con la loro ricerca di redenzione il fulcro emotivo delle sue storie.

Un cinema di pura scrittura, che alla vivacità dei dialoghi e all’approfondimento caratteriale sacrificano non pochi elementi, a cominciare da un intreccio che alla lunga stagna e accumula un’implausibilità dopo l’altra – in primis i numerosi incontri fortuiti che si verificano nell’arco della mezz’ora conclusiva – e da una regia puramente illustrativa, quando non addirittura televisiva, che, nel raro tentativo di azzeccare qualche pezzo di bravura, finisce per inciampare vistosamente (lo sciatto pianosequenza del pestaggio di Welby, il maldestro climax del rogo della stazione di polizia, chiuso da un goffo ralenti) o che condiziona troppe sequenze con un’enfasi più consona al proscenio che non alla messinscena cinematografica, come il flashback dell’ultima conversazione fra madre e figlia e il litigio con l’ex-marito manesco.

Non ci troviamo, quindi, di fronte al compimento di quella transizione di linguaggio che McDonagh, sempre più dichiaratamente disamorato del palcoscenico, auspicava per sé come cineasta, ma quantomeno a una significativa tappa di maturazione da sceneggiatore che conferma l’estro e la disinvoltura di un tempo – bastino anche solo gli scambi fra Dixon e la madre (un’indimenticabile Sandy Martin) che sembrano usciti da La bella regina di Leenane – ampliandone la portata e le ambizioni, un film a cui forse a tratti si è voluta attribuire un’importanza e una puntualità più casuali che altro (lo script risale a ben otto anni fa, molto prima che l’ascesa di Trump e il caso Weinstein rinfocolassero gli animi), ma che riesce a gettare su un cinema statunitense sempre più asfittico e sicuro di sé quell’ombra di ambiguità di cui ha davvero bisogno.

Voto 7

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