Ghost Stories

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Mica semplice scrivere una recensione di Ghost Stories. Non che sia un film di difficile lettura, per carità, solo appare ardua un’analisi che non rischi di svelare troppo allo spettatore di un’operazione che nasce, in prima istanza, come brillante atto di devozione verso i principali archetipi della tradizione horror, britannica e non. Siamo dalle parti, per intenderci, dello humour nerissimo e colto della serie TV Inside No. 9, che non citiamo a caso, anzi. Basti sapere che i suoi due autori, Steve Pemberton e Reese Shearsmith, provengono da quella stessa League of Gentlemen di cui facevano parte anche Mark Gatiss, in seguito autore del fortunato Sherlock e, per l’appunto, il Jeremy Dyson sceneggiatore e regista, insieme all’attore protagonista Andy Nyman, di questo delizioso e lugubre pastiche che, prima ancora di approdare al cinema, è stato una pièce teatrale di successo.



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Strutturato come il più classico dei film a episodi, inseriti però in un quadro più ampio, Ghost Stories narra le vicende del professor Philip Goodman (Andy Nyman) che, per mestiere, smaschera sedicenti fenomeni paranormali in un seguito programma TV. Un giorno Goodman riceve una misteriosa lettera dal suo mito di gioventù: un presentatore che, molti anni prima, svolgeva il suo stesso ruolo e che ora sembra scomparso nel nulla. L’uomo in questione vive in condizioni precarie, convinto di aver sprecato la propria vita cercando di confutare fenomeni che in realtà potrebbero davvero non avere spiegazione scientifica. Affida quindi a Goodman tre casi, tutti riguardanti persone che sostengono di avere avuto contatti con fantasmi, nella speranza che lui riesca a darne un’interpretazione razionale. Ecco, se già Ghost Stories si limitasse a mettere in sequenza questi tre quadretti gotici così zeppi di citazioni, sarebbe abbastanza una manna per gli amanti del genere, costretti il più delle volte a sciropparsi innocue quanto prescindibili operine nella speranza, inevitabilmente frustrata, di rimediare qualche sparuto brivido lungo la schiena. Certo, in quel caso, il 95% di metascore targato Rotten Tomatoes ci apparirebbe leggermente esagerato, ma potremmo comunque dirci soddisfatti.

Fortuna – e soprattutto bravura degli autori – vuole che non sia così, e che il film lentamente si trasformi in altro, attraverso un twist narrativo che, sebbene neanche poi così originale, ne ribalta il senso dall’interno. E non sembri spoiler quest’ultimo perché, in realtà, approcciarsi al film con la consapevolezza che alla fine se ne uscirà comunque piacevolmente sorpresi, dovrebbe costituire una sorta di valore aggiunto. Al netto della sua particolare struttura, però, il film di Nyman e Dyson funziona che è una meraviglia, attraverso un riuscito equilibrio tra spavento e riso che trova forse il suo climax nell’episodio centrale; quello con protagonista il giovane prodigio Alex Lawther, già fattosi notare nella recente serie The End of the F***ing World e, ancor prima, in uno degli episodi migliori della terza stagione di Black Mirror, “Shut Up and Dance”. Menzione a parte merita Martin Freeman, qui al suo ritorno in patria dopo i fasti hollywoodiani de Lo Hobbit e Black Panther e perfettamente a proprio agio in un ruolo che gioca con la sua aria da classico common man conferendole aspetti via via più inquietanti. Insomma, dopo la piacevole sorpresa di A Quiet Place, un’ulteriore conferma di quella che potremmo già definire un’ottima primavera per l’horror.

Voto 7

 

 

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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