Loro 1

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Loro_1

Prima ancora di avventurarci in ardite analisi cercando di capire se Loro 1 sia o meno riuscito e come si ponga all’interno dell’opus sorrentiniano, la visione del primo capitolo di questo tanto atteso film su Berlusconi ci suggerisce due certezze. La prima – quella, se vogliamo più banale – è che si tratti inevitabilmente di un’opera monca, divisa in due più per esigenze distributive che non per una reale natura diadica del progetto. A differenza di un Kill Bill, insomma, qui il tentativo sembra essenzialmente quello di renderlo più digeribile ad un pubblico poco incline a stare per più di due ore in sala, figuriamoci le quasi quattro di durata totale. Oppure, a voler essere più maliziosi, di raddoppiare gli incassi. La seconda certezza, invece, è che la parentesi seriale di The Young Pope abbia fatto un gran bene a Sorrentino, allontanandolo da certe tentazioni sterilmente estetizzanti che, sebbene in nuce fin dai suoi esordi, deflagravano nell’ultimo Youth – La giovinezza rendendolo di fatto una sorta di autoparodia senile de La grande bellezza, per sforzarsi di ritrovare una strada quanto più compiutamente narrativa. La chiave per interpretare o, almeno, per iniziare a leggere quest’ultima opera dell’autore premio Oscar® è sempre e comunque La grande bellezza, chiave di volta di tutto il suo cinema, di cui Loro finisce per rappresentare il lato più oscuro, perché oggettivamente meno salvabile.



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Se nella parabola esistenziale di Jep Gambardella vi era infatti un’idea di bellezza in qualche modo corrotta o smarrita lungo la via, qui è tutto già scritto e non ci sono mai stati né limiti da superare né, tanto meno, innocenze da perdere. La decadenza non nasce più dalla comparazione tra il “fuori” e “dentro” un mondo a cui, tra l’altro, non si sente neppure di appartenere appieno, ma è insita in un contesto socioculturale di infinito squallore, abitato da figurine bidimensionali per le quali l’idea di non farne parte non è nemmeno lontanamente contemplabile. Non è affatto un caso che un film così radicalmente incentrato sull’assenza di umanità sia attraversato a più riprese da animali, come la pecora che, nel prologo vagamente lynchiano, vediamo rimanere vittima dei telequiz e dell’aria condizionata di Villa Certosa. La sensazione di declino è tale che Berlusconi, a differenza di Titta Di Girolamo, Andreotti o dello stesso Gambardella, non è più fisicamente necessario in quanto personaggio extraordinario. Il vero protagonista di questo primo capitolo di Loro non è neanche Berlusconi, presente come entità astratta evocata a più riprese nei discorsi di chi lo chiama semplicemente “Lui” o in forma di tatuaggio sul fondoschiena di una escort, bensì il viscido imprenditore pugliese Sergio Morra (un Riccardo Scamarcio evidentemente ispirato a Gianpaolo Tarantini) che, ossessionato dall’idea di diventare il fornitore ufficiale di “svago” del Cavaliere, entra in contatto con una serie di personaggi appartenenti alla sua corte, tra cui spiccano la sua amante privilegiata Kira (Kasia Smutniak) e un ex-ministro con velleità poetiche (l’irriconoscibile Fabrizio Bentivoglio) che non può non ricordare Sandro Bondi.

La prima parte del film è una tale galleria di corpi nudi e cocaina da far impallidire lo Scorsese di Casinò, nella quale Sorrentino spinge sul pedale del grottesco fino a far spogliare ulteriormente quei corpi di qualsiasi connotazione erotizzante. Il risultato è una radicale rinuncia a quel lirismo visivo a cui l’autore ci ha da sempre abituato e un inedito ricorso alla risata (amarissima) come unico strumento di difesa contro il brutto che avanza. Il lungo incipit è talmente ben orchestrato nel suo lavorare per accumulo progressivo di elementi che, a un certo punto, quasi si perde coscienza del fatto che, prima o poi, debba entrare in scena Lui. Che poi appare – a meno di mezzora dalla fine, un po’ come Kurtz in Apocalypse Now – e sposta, se in maniera definitiva o meno lo capiremo solo nel secondo capitolo, il baricentro del racconto da Loro a Lui, dal “chiacchiericcio” costante di una coralità fin troppo rumorosa ai silenzi interrotti soltanto dalle battute banali e telefonate di un Berlusconi assai distante dalla tipica profondità dei personaggi di Sorrentino e dalla chitarra di Giovanni Esposito/Mariano Apicella. Troppo poco, forse, per giudicare l’intero affresco, ma abbastanza per registrare la chiara voglia del suo autore di voltare pagina e tentare nuove strade, continuando a raccontare l’Italia attraverso una lente che, a forza di ingrandire, per forza di cose distorce. Solo senza rimanere vittima del proprio inconfondibile stile.

Voto 7

 

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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