L’isola dei cani

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Sembra un film di Carpenter questo L’isola dei cani. Dietro ai pupazzetti sapientemente mossi si cela una nuova irrequietezza in un contesto tutt’altro che lezioso. Eppure è sempre Wes Anderson con i suoi mondi narrativi altri, chiusi solo in apparenza e le sue realtà geometriche aperte e penetrabili, visivamente accattivanti, abitate da personaggi sentimentalmente sconquassati, ironici e malinconici, costantemente alle prese con incomprensioni, separazioni, ritrovamenti e riconciliazioni.
All’interno di un percorso creativo che è riuscito sempre e comunque a essere onesto, coerente e formalmente riconoscibile come quello di ben pochi altri cineasti, ben si posiziona allora questa seconda opera realizzata da Wes Anderson con la tecnica dello stop-motion. Film d’apertura dell’ultima Berlinale, dove ha vinto l’Orso d’argento per la regia, L’isola dei cani, così come era stato per Fantastic Mr. Fox, è una favola dal canovaccio semplice ma dotata di mille sfaccettature e infiniti rimandi all’attualità, politica in primis.

Siamo nel Giappone del 2037, i cani vivono in perfetta armonia con gli uomini, almeno fino al giorno in cui il sindaco dell’immaginaria città di Megasaki (il perfido Kobayashi che si chiama come l’avvocato de I soliti sospetti interpretato da Pete Postlethwaite) ne decreta l’espulsione, esiliandoli e abbandonandoli su un’isola-discarica, con la scusa di una febbre canina, il tartufo febbrile, per evitare che contagi anche gli umani. Suo nipote, il 12enne Atari, disobbedisce agli ordini e parte a bordo di un piccolo aereo alla volta dell’isola alla ricerca del suo cane Spots. Sul suo cammino incontrerà altri fedeli amici ingiustamente condannati a una vita da reietti: Boss, Rex, Chef, Duke, King, che non solo lo aiuteranno nella ricerca, ma lo seguiranno nella rivolta contro il primo cittadino, segretamente intenzionato a sopprimere definitivamente l’intera colonia canina.

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C’è il popolo ignorante che appoggia l’ascesa di un dittatore che si fa strada a colpi di fake news, gli scienziati che lo combattono con scarsi risultati, una corruzione diffusa, una libertà che è solo illusoria e un antispecismo che è un grande classico delle paranoie nei confronti del diverso, accusato di portare chissà quali malattie. C’è anche una rugosità strutturale nel rappresentare i cani, un’intrinseca artigianalità che rispecchia a perfezione lo stato emotivo dei quadrupedi abbandonati e reietti su garbage island. Per questo definire L’isola dei cani un film d’animazione fa abbastanza strano e suona un tantino riduttivo.

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Scritto a sei mani dallo stesso regista insieme a Jason Schwartzman e Roman Coppola, Isle of Dogs è anche una celebrazione del Giappone attraverso le meticolose ispirazioni estetiche e culturali, un omaggio-non-plagio al cinema di Kurosawa (è un po’ il Dodes’ka-den dei cani), Ozu e Miyazaki, ai paesaggi di Hokusai e persino al teatro Kabuki e alle sue maschere. Fondamentale poi, per Anderson, sembra essere la questione del linguaggio: i cani parlano in inglese (nella versione originale o nelle altre lingue in cui il film è doppiato), mentre gli umani in giapponese non tradotto né sottotitolato (ed così in tutte le versioni del film, in qualsiasi nazione), una scelta piuttosto drastica che ha in realtà una funzione ben precisa, quella di far sì che lo spettatore si immedesimi nei cani, più che negli umani.
Insomma Anderson questa volta si rivolge alla società civile e, in modo tutt’altro che velato, la incita a contrastare il riemergere di tendenze autoritarie considerate colpevoli di indirizzarla verso orizzonti gretti e dispotici. Lo fa con la solita eleganza che lo contraddistingue e la partitura di Alexandre Desplat lo accompagna, spigolosa e aderente alle immagini. Il risultato supera ogni aspettativa ed è puro godimento estetico e cerebrale.

Voto 8,5

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Carolina Tocci

Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.

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