Solo: A Star Wars Story

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In una galassia lontana lontana… ma anche inevitabilmente un po’ logora.
Potrebbe essere questo il nuovo incipit di una saga che, dopo la riuscita operazione di restyling a firma J.J.Abrams e l’ottimo spin-off RogueOne, con il recente Star Wars: Gli ultimi Jedi ha iniziato a mostrare i primi segnali di stanca, soprattutto in un pubblico in perenne bilico tra la voglia di novità e un conservatorismo assai critico quando, quelle stesse novità, si tratta di metabolizzarle all’interno di un disegno narrativo più ampio. Ecco perché, nei confronti di questo Solo: A Star Wars Story, capitolo indipendente dal continuum della saga interamente dedicato alla giovinezza di Han Solo, sussisteva più di una perplessità. In primis per le sue vicissitudini produttive, compreso un discusso cambio di registi – dalla coppiaPhil Lord/Christopher Miller a Ron Howard–a riprese ormai quasi ultimate. A questo si è poi aggiunta la restrizione dell’arco temporale che separa l’uscita di uno Star Wars dall’altro e che, in questo caso, si riduce solo a una manciata di mesi rispetto al più canonico – e, aggiungiamo, fisiologicamente utile – anno solare. Se il tentativo, ovvio, è quello di capitalizzare un franchise che, soprattutto in termini di puro merchandising, sembra non avere rivali, il rischio principale è, però, la perdita graduale del suo status di evento.



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Il risultato è che, presentato a Cannes una manciata di giorni fa, il decimo film della saga creata da George Lucas ha avuto reazioni che definire tiepide è poco. E a torto, perché Solo: A Star Wars Story è una piacevole ventata di aria fresca su un brand narrativamente sempre più involuto, anche a causa dell’eccessiva ortodossia della propria fan base. Se Rogue One era un war movie ambientato nello spazio, Solo: A Star Wars Story è un western intergalattico, fracassone e senza troppe pretese, che poi vira verso il noir fino a un finto epilogo che si (e ci) diverte riprendendo integralmente la scena finale di Casablanca. Ambientata undici anni prima degli eventi di Una nuova speranzae subito dopo Star Wars: Episodio IIILa vendetta dei Sith, la pellicola racconta le vicende del personaggio di Han Solo (Alden Ehrenreich) dall’età di diciotto anni fino ai ventiquattro, dunque molti anni prima di incontrare Luke Skywalker e il Maestro Jedi Obi-Wan Kenobi. Largo spazio, quindi, al suo primo amore per Qi’ra (Emilia Clarke), all’incontro con Chewbecca e alla famosa partita a Sabacc con il nemico/amico Lando Calrissian (Donald Glover) dalla quale Solo uscì vincitore e con le chiavi del Millennium Falcon in tasca. Della trama non diremo altro, ché sappiamo quanto gli amanti di Star Wars possano essere suscettibili alle anche minime anticipazioni.

Ciò di cui invece possiamo parlare senza preoccuparci troppo è di come il coinvolgimento di un regista classico come Ron Howard – in realtà il più classico dei registi americani viventi – che immaginiamo del tutto impermeabile al fascino dell’Impero, faccia un gran bene a un immaginario che, una volta libero dall’ossessione di rispettare alla lettera la coerenza interna alla saga, fila via come un treno, pieno di una ritrovata naïvetéseventies che non può non essere figlia di quel Lawrence Kasdan(già autore de L’impero colpisce ancora e Il ritorno dello Jedi, oltre che di Star Wars: Il risveglio della Forza) tornato qui in veste di sceneggiatore. Più che lo spregiudicato Han Solo della prima trilogia, infatti, il giovane protagonista di questo spin-off ricorda un altro immortale eroe uscito dalla penna di Kasdan e, guarda caso, interpretato dallo stesso Harrison Ford, ovvero Indiana Jones. Più in generale è al cinema di Spielberg che Howard sembra guardare maggiormente, in un cortocircuito cinefilo pieno di déjà vu assolutamente in linea con il clima di riscoperta, attualmente in voga, di quell’età dell’oro a cavallo tra i decenni settanta e ottanta. La sensazione è un po’ quella di un cinema mainstream che prova – e, in buona parte, riesce anche – a ritrovare la propria innocenza cercandola nell’ultimo periodo in cui Hollywood ha realmente inventato delle storie, prima di infilarsi in un cul-de-sac fatto di continue rielaborazioni di quelle stesse storie. Un divertissement girato benissimo che regge per intero le sue due ore e passa di durata e ha forse il suo unico vero difetto nella recitazione monocorde di Alden Ehrenreich che dimostra come il ruolo dell’attore stalentato da lui interpretato in Ave Cesare! dei Coen non fosse poi così lontano dalla realtà.

Voto 7

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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