Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Nessuno meglio di Tim Burton risultava più adatto per aggiornare la favola dell’elefantino volante al gusto contemporaneo e, a 78 anni dall’uscita del cartoon Disney, riportare in sala Dumbo.
Quella malinconia di fondo, leitmotiv di tutti i suoi film, quei personaggi incompresi, spesso immersi in una bolla di solitudine e sempre allontanati dalla collettività a causa delle loro diversità, erano tutti temi che già nel Dumbo del 1941 venivano sfiorati e che, in questo live action, continuano ad essere sviluppati e amplificati. Il tutto condito da buoni sentimenti, un cast di livello e tanti effetti speciali che fanno in modo che il film lavori, ma senza mai oltrepassare alcun limite e mantenendosi ben saldo sui binari di un certo conformismo. La libertà creativa di Edward mani di forbice appare lontana anni luce ma il mestiere, insieme a una confezione pressoché impeccabile, è la componente che salva questo Dumbo. E a Burton va dato atto di essere riuscito nell’impresa di accantonare per un attimo la sua parte più lugubre e gotica per abbracciarne una disneyana decisamente più morbida e accomodante.
Holt Farrier (Colin Farrell) è una ex stella del circo gestito da Max Medici (un meraviglioso Danny DeVito) che, al ritorno dalla guerra, ritrova i suoi due figli, Milly (Nico Parker) e Joe (Finley Hobbins). Nel frattempo però molte cose sono cambiate e Holt ora è costretto a occuparsi di un elefantino appena nato, Dumbo, le cui grandi orecchie lo rendono lo zimbello della compagnia di girovaghi. Quando i suoi figli scoprono che Dumbo sa volare, il persuasivo imprenditore V.A. Vandevere (Michael Keaton) e l’affascinante trapezista Colette Marchant (Eva Green) fanno di tutto per trasformare l’insolito elefante in una star. Vandevere recluta infatti il cucciolo per il suo nuovo straordinario parco dei divertimenti, Dreamland, un posto all’apparenza magico che nasconde non pochi segreti.
Interamente girato in studio, con gli elefanti ricreati in computer graphic (sia Dumbo che la mamma sono in CGI), Burton elimina alcuni personaggi dal cartoon, ne crea di nuovi e costruisce la parabola di Dumbo come una vera e propria storia di formazione. Si procede per stereotipi, ma gli occhioni azzuri dell’elefantino sono irresistibili e anche la sua caratterizzazione, molto più di quella degli altri personaggi del film, tutti piuttosto bidimensionali. I costumi della quattro volte Premio Oscar Colleen Atwood sono impeccabili (le mise sfoggiate da Eva Green in primis) e le musiche di Danny Elfman, dopo decine di film con il regista di Beetlejuice, sono un tutt’uno con la Weltanschauung burtoniana.
L’impressione che si ha, però, è quella di un film diretto da Burton con la mano sinistra, un compitino ben svolto ma lontano dai fasti e dalle passioni che animavano un tempo il regista (quelle ben tangibili in film come Ed Wood e Big Fish su tutti). Se è vero infatti che è l’autore perfetto per riportare agli antichi fasti la storia dell’elefantino volante potendo spingere su temi a lui cari quali l’elogio della diversità come segno di forza e non di debolezza, l’esaltazione del lato oscuro dell’infanzia, l’importanza della presenza della figura materna e la crudeltà di tenere gli animali selvaggi in cattività per mero divertimento da parte degli uomini, è altrettanto vero che il suo Dumbo non stupisce quasi mai. Però accontenta e commuove.
Voto 6
Giornalista freelance e blogger, un giorno le è venuta l'idea di aprire questo sito. Scrive di cinema e gossip e nel buio di una sala cinematografica si sente a casa.
L’elefantino volante di casa Disney diventa un dolcissimo freak nelle mani di Tim Burton.
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