Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
The Woman in Black è un esempio aureo di un cinema che forse non si produce più o si realizza sempre meno. Un cinema di genere, senza ambizioni altissime ma estremamente onesto, scrupoloso, curato, professionale. Un cinema di genere che però si raffina, attinge a grandi professionali artigianali, tecniche, ad una scrittura media e ad una “pittura” media ma di una media molto alta.
Il genere dell’horror pre-splatter, una Maniera che riprende i moduli del romanzo e della novellistica horror e gotica ottocentesca, pensiamo ad Edgar Allan Poe ma non solo ed oltre Poe, Lovecraft ed altri. L’horror o il thriller della modesta produzione inglese degli anni ’60 e ’70 ma anche quello più consapevole e meta cinematografico dei vari Bava & Co.
Se quel cinema, umile e funzionale ad un pubblico tradizionalista era Maniera appunto del fantasy-gotico ottocentesco; il film di Watkins è a sua volta manieristico rispetto a quel cinema di circa mezzo secolo fa che già aveva esplorato i sentieri bui ed inquietanti che portano al sovrannaturale “classico”, quello dei fantasmi, delle apparizioni, dell’attesa e della riesumazione di eventi luttuosi che nascondono simbolismi, esoterismi paradigmatici, imprevedibili bizzarrie del Caso che spesso si sovrappone con la carta della Morte.
La storia di The Woman in Black, tratta da un grande successo letterario di Susan Hill, è estremamente prevedibile, quasi banale, come la location di una casa infestata di fantasmi in un villaggio inglese rimasto fermo ad un’immagine medioevale pur nell’ambientazione vittoriana del film. La discendenza dal romanzo della Hill, sottolinea ancor più la matrice tipicamente letteraria di questo tipo di cinema e la prevedibilità di certe tematiche ed iconografie non è un limite ma bensì un valore aggiunto: una consuetudine di frequentazione, una riconoscibilità dei luoghi letterari e dei topoi pittorici e poi cinematografici.
Il pubblico d’elezione del film, pur con la presenza del divo adolescenziale Daniel Radcliffe, non è certo quello dei giovani cultori del moderno horror nipponico alla Ring oppure degli rassicuranti illusionismi potteriani. Ma piuttosto un pubblico di tradizionali letture narrative, compite famiglie inglesi che prendono la loro Austin Morris del 54, verde scura, per recars in un piovoso pomeriggio a vedere il film di Watkins al cinematografo del vicino villaggio di campagna.
Ovviamente questo è un volo visionario per far comprendere che forse il pubblico ideale di questo ottimo film di genere, forse non esiste più. Da sottolineare la sorprendente, matura e misurata prestazione di Radcliffe e speriamo che la fattura classica e la metamorfosi adulta di questo divo, non disorienti un pubblico molto giovane, poco avvezzo ai generi letterari, cinematografici, ad una visione in profondità, a tempi narrativi avvincenti ma scanditi da ritmi non convulsi.
Un gradevole film, un ottimo Radcliffe, un’operazione di salvaguardia della memoria non solo del grande cinema ma anche del buon cinema medio.
Voto 7
Recensione a cura di Raffaele Rivieccio
(www.binarioloco.it)
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