Noi
— 4 aprile 2019Jordan Peele confeziona un horror ricco di suggestioni che valica il genere e ci costringe a guardare in faccia il nostro peggior nemico. Noi stessi.
Durante le riprese di Sogno, quindicesimo capitolo di una nutrita filmografia, un clamoroso fuori programma sconvolge la vita dei membri della troupe e del cast: l’attrice protagonista Lee Na-Young, che interpreta la sonnambula Ran, rischia di trasformare il suicidio del suo personaggio in un reale, assurdo e mortale incidente, rimanendo impigliata nel cappio e arrivando vicinissima al soffocamento.
Kim Ki-duk, regista del film e reduce dalla non esaltante, se non addirittura tristemente interlocutoria tripletta de L’arco, Time e Soffio, non si limita ad archiviare l’accaduto come uno spiacevole inconveniente ma resta profondamente segnato nello spirito e nel corpo dalla vicenda, allontanandosi non solo dall’industria cinematografica ma anche dallo stesso mondo civilizzato. Rinchiudendosi per tre lunghi anni in una baita isolata, Ki-duk dà l’impressione di rielaborare il dramma definitivamente con il “documentario” Arirang, nel quale, inscenando con innegabile vanità la propria routine, il proprio bisogno di espiazione e un disprezzo di sé che paradossalmente sfocia nel narcisismo, l’autore di Ferro 3 pare voler invitare lo spettatore – anzi, più precisamente i seguaci che avrebbe “tradito” – a dimenticarsi di lui.
Però niente è come sembra, e, forse ringalluzzito dalla vittoria della scorsa edizione dell’Un Certain Regard del Festival di Cannes, Ki-duk ritorna timidamente al cinema di finzione con il breve Amen che segna l’evidente inizio di una terza parte di carriera, dopo la fase mainstream inaugurata da Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera: è però con l’ultimo Pieta, accolto trionfalmente a Venezia, che si comincia a considerare fattibile l’inizio di un nuovo ciclo e, di conseguenza, a dubitare della genuinità del percorso privato e autoriale del cineasta coreano.
Quasi a voler rimarcare il superamento permanente dal trauma del 2008, Pieta si apre proprio con una sequenza di impiccagione autoinflitta: non ci è dato vedere in viso il malcapitato, ma è lecito pensare che a restare strangolato dalle catene, per una malsana convergenza dei ruoli di vittima ed aguzzino, sia lo stesso autore, trinceratosi dietro un cupio dissolvi che, di minuto in minuto, si risolve in una disperata – e anche un po’ patetica – richiesta di aiuto: se Arirang, secondo la brillante recensione di Leslie Velperin, era a tutti gli effetti “un’esperienza paragonabile soltanto all’ascolto forzato degli sproloqui di un povero ubriacone impegnato a raccontare per filo e per segno quanto un tempo fosse ricco e famoso, a maledire gli amici che lo hanno disconosciuto e a dichiarare con orgoglio di aver finalmente compreso il vero significato dell’esistenza”, Pieta è il penoso – ma, ahimé, riuscito – tentativo di riallacciare coattamente i rapporti con la società con cui si erano drasticamente tagliati i ponti, l’inconsapevole gesto di resa in cui la sincerità dell’artista viene sepolta dal desiderio avido di passare all’incasso, e non (solo) in termini monetari.
Probabilmente a Kim Ki-duk – non tanto diversamente dal collega nipponico Takeshi Kitano – ha fatto male soprattutto il silenzio, l’assenza di quei moti d’acclamazione che ne avevano decretato lo status di autore di culto per tutto il decennio trascorso, e questo Pieta, in maniera decisamente meno sofferta e cinica dei due pessimi Outrage del regista di Hana-bi, finisce per rivelarsi come l’irritante presa in giro da parte di un poeta dell’immagine che del cinema pare essersi stancato una volta per sempre.
Al vincitore dell’ultimo Festival di Venezia sembra importare ben poco della situazione socioeconomica della sua Corea del Sud, così come della presunta critica anticapitalista tanto sottolineata dagli estimatori pare l’ultimo pensiero di un uomo rimasto con la mente nel loculo del suo rifugio di montagna e, per esteso, nella cella ancora più ristretta del suo limbo personale, nel quale fantasmi assortiti e paranoie si sono sempre aggirati, ma almeno, fino a qualche tempo fa, mediati da una concezione innovativa ed equilibrata del mezzo filmico, nonché da uno stile degno di questo nome.
Non c’è molto da analizzare nelle peregrinazioni punitive del cruento riscossore Lee Kang-Do, dedito a menomare e a rendere storpi, con la scusa di un debito insoluto, i pochi artigiani che resistono nelle zone più povere di Seul, ultimi ostacoli di una metropolizzazione selvaggia dove il denaro ha eliminato ogni traccia di umanità; non c’è nulla da capire nell’incontro fra il giovane e la donna di mezza età che gli si presenta come la madre che lo aveva abbandonato da bambino e che verrà ripagata dapprima con assalti psicologici, fisici e sessuali, poi con una metaforica regressione infantile che fungerà da preambolo per la sciagura finale: ciò che davvero rende repellente Pieta non è, in sostanza, l’apparato di mutilazioni, torture, sopraffazioni, masturbazioni, stupri e omicidi dove comunque vigono l’autocompiacimento e la discesa nel gore più vieto, oltre che l’intenzione – ormai vecchissima – di épater la bourgeoisie a qualunque costo, ma il modo in cui questi apparenti tabù vengono trattati, con il totale spregio di un punto di vista umano che alla fine riduce i personaggi a insignificanti pedine da muovere da una scena all’altra e da fare a pezzi senza troppi problemi, con il ricorso ad uno svolgimento meccanico e così sfacciatamente antirealista da cancellare ogni moto di compassione e di partecipazione alle azioni dei protagonisti, con la subordinazione di qualsiasi criterio – sia esso narrativo, morale o, in particolare, estetico, vista l’approssimatività della messinscena che lascia a bocca aperta chi, negli anni, aveva visto in opere come La samaritana un esempio di rigore – all’evidente disordine mentale in cui Kim-Ki-duk versa e che sembra essersi impossessato di lui.
Una volta, nei suoi film, la violenza assumeva un valore catartico in cui fulminee sequenze in netto contrasto con l’astrazione del resto – come i raptus di Bad Guy, il suicidio de La samaritana, l’omicidio involontario della donna in macchina in Ferro 3 – finivano per rimanere impresse nel profondo, mentre qui, calati in un’atmosfera da povero emulo di Park Chan-Wook, centocinque minuti di crudeltà più o meno ghignante, oltre ad anestetizzare gli occhi e la sensibilità di chi guarda, non riescono mai a evolversi in un climax da autentica tragedia greca e svelano di volta in volta la sadica gragnuola di colpi bassi spacciata per estremizzata rete di allegorie.
Ignorando titoli di grande integrità etica e artistica come Apres mai di Assayas, La cinquieme saison di Brosens & Woodworth o To the Wonder di Terrence Malick, la giuria di Venezia69 ha commesso un grave errore di prospettiva ed è caduta con tutte le scarpe nella trappola del cineasta di Bongwa, artefice di una delle resurrezioni più bieche e scongiurabili cui sia dato assistere. Con il pretesto dell’universalità, il piccolo e distorto universo interiore di Kim Ki-duk ha preso il sopravvento sullo scopo comunicativo della settima arte – cosa imputata, erroneamente, anche al film di Malick, in cui invece il discorso si ferma alla forma – e la scellerata assegnazione del Leone d’Oro dimostra, se ce ne fosse ancora la necessità, che la cinepresa non andrebbe mai e poi mai scambiata per il lettino dello psichiatra.
Voto 5
Recensione a cura di Andrea Bosco
(www.binarioloco.it)
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