La madre

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Un uomo torna a casa da lavoro evidentemente sconvolto e trascina le sue due figliolette (Lilly di un anno e Victoria di tre) in auto. Da un notiziario in autoradio apprendiamo che l’uomo, in preda a un raptus, ha appena compiuto una strage in ufficio e ha ucciso sua moglie. Dopo un incidente i tre trovano rifugio in una baracca in mezzo al bosco.
Flash Forward di cinque anni.
Le bambine vengono ritrovate in quella stessa baracca, aggressive e ormai del tutto disabituate alla civiltà, e affidate allo zio (Nikolaj Coster-Waldau) e alla sua compagna Annabel (Jessica Chastain), rockstar, inizialmente piuttosto refrattaria all’idea di occuparsi di loro.
Quest’ultima sarà la prima ad accorgersi della minacciosa presenza che sembra accompagnarle.
E qui mi fermo perché i film horror meno si raccontano e meglio è.



Guillermo Del Toro produce questo esordio nel lungometraggio del suo protégé Andrés Muschietti che, di fatto, riprende il soggetto alla base di un suo cortometraggio (Mamà) e lo sviluppa.
Quella che sulla carta potrebbe sembrare l’ennesima variante sul tema “case e fantasmi” in realtà riserva alcune piacevoli sorprese.
Innanzitutto fa paura, che si suppone essere ciò che un film horror debba fare ma che è bene non dare mai per scontato. Poche cose riempiono uno spettatore di tristezza quanto un horror che non spaventi o – peggio – che  copra di splatter a buon mercato la sua totale mancanza di idee.
Muschietti invece riesce nell’impresa di impaurire lo spettatore con due elementi fondamentali: uno stile di regia asciutto, quasi austero anche nel suo sporadico ricorso alla visionarietà e un’ottima  gestione degli spazi e dell’architettura domestica.
Valga come esempio la scena forse girata meglio dell’intero film.
L’inquadratura ci mostra la porta d’ingresso della stanza delle bambine e il corridoio antistante. Attraverso la porta vediamo solo Lilly giocare con quella che è lecito pensare sia sua sorella. Poi dal corridoio vediamo arrivare Annabel con Victoria e quella che poteva sembrare una scena di raccordo diventa il primo segnale di una presenza “altra” all’interno della casa.
Piuttosto che una linearità di sguardo che omologhi chi fruisce a chi vive l’azione – dinamica utilizzata ad esempio da Scott Derrickson  nel recente, ottimo Sinister – Muschietti propende per una soluzione meno immediata, che perturba proprio in virtù del suo mentire allo spettatore, illudendolo di essere onnisciente e quindi complice del regista stesso, per poi disilluderlo puntualmente facendolo precipitare nella stessa inquietudine dei protagonisti.

Si accennava prima al ruolo di produttore di Guillermo Del Toro, ma in realtà l’impressione è che il cineasta messicano abbia avuto un peso determinante anche in termini creativi.
C’è un lato fortemente umano nel film. Una forma di emotività, tipica dell’autore dei due Hellboy e de Il labirinto del fauno, che si riflette ad esempio nell’amore incondizionato dello zio per le nipotine ritrovate o nel concetto stesso di maternità, vero leitmotiv della storia, e che permette a La madre di non cadere mai in facili escamotage nichilisti, soluzioni adottate spesso dagli sceneggiatori di horror per uscire dalle pastoie di un probabile lieto fine.
La mano di Del Toro è evidente fino al punto di segnare forse l’unica pecca di questo bel film, che è proprio il finale. C’è un senso di enfasi eccessiva, quasi melodrammatica, negli ultimi minuti che fa un po’ a pugni con la misura estrema con cui Muschietti, fino a quel momento, è riuscito a cadenzare gli eventi procedendo per accumulo. Alla fine invece quell’emotività a cui si accennava prima, per un attimo, straborda.
Indipendentemente da questo però il film fa il suo lavoro: spaventa.
E poi è davvero difficile che una pellicola in cui reciti Jessica Chastain possa non essere buona.

Voto 6

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Fabio Giusti

Da sempre convinto che, durante la proiezione di un film, nulla di brutto possa accadere, ha un passato da sceneggiatore, copywriter e altre prescindibili attività. A parte vedere film fa ben poco.

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